Inaugurata ieri a Reggio Emilia un’importante mostra fotografica che ripercorre la carriera e i lavori del grande fotografo reggiano Ivano Bolondi. L’esposizione curata da Massimo Mussini, dal titolo Ivano Bolondi. Fotografie 1980/2012. Atmosfere sospese, sarà visitabile fino al 21 aprile 2013 e presenta oltre 180 scatti del fotografo realizzati in diversi luoghi del mondo tra il 1980 e oggi, capaci di raccontare il viaggio artistico ed umano di un uomo straordinario, sensibile e attento ad ogni aspetto visivo ed emozionale che può celarsi nella realtà circostante.
Ivano Bolondi, senza mai passare al professionismo, ha dedicato all’immagine un ampio spazio della sua attività. Alle origini della sua passione vi è l’appartenenza a un attivo circolo cinefotografico. Muove i primi passi guardando a Henry Cartier Bresson, il mito dei fotografi amatoriali, ma poi rivolge l’attenzione verso Luigi Ghirri, di cui coglie le proposte innovative del linguaggio fotografico italiano.
Fervido nell’immaginazione e creativo per natura, utilizza queste doti sia nell’attività imprenditoriale, inventando congegni meccanici venduti in tutto il mondo, sia nella ricerca fotografica, che affianca la sua passione per i viaggi, intesi come occasione per conoscere altre realtà esistenziali. Se inizialmente registra le esperienze di viaggiatore con immagini narrative e con l’attenzione alle particolarità dei luoghi, seguendo una consolidata tradizione, nel corso degli anni ottanta il suo linguaggio fotografico subisce una sensibile trasformazione.
Dall’esempio di Ghirri ricava l’idea che la fotografia sia un’operazione principalmente concettuale, non destinata a proporre soltanto immagini descrittive della realtà ma a fornire strumenti interpretativi capaci di sollecitare pensieri ed emozioni nell’osservatore.
Nel primo decennio del nuovo secolo, anziché direttamente sull’ambiente, inizia a puntare l’obiettivo con sempre maggiore frequenza verso la immagine del circostante riflessa da superfici specchianti e a utilizzare lo sfocato al fine di contrastare l’abitudine all’interpretazione referenziale della fotografia e per favorirne una lettura più orientata alla sfera psicologica.
In tal modo raccontare le proprie sensazioni di fronte ai modelli di esistenza e agli aspetti paesaggistici dei territori visitati, diventa occasione per verificare non tanto le differenze fra le varie culture, quanto le analogie di risposta a bisogni fondamentali e comuni.
A questa testimonianza dell’identità umana, celata nella varietà delle forme espressive, corrisponde il linguaggio fotografico utilizzato, sempre diretto e privo di rielaborazioni successive al momento della ripresa. Soltanto negli ultimi tempi, a cominciare dal volume Quale Cina (2012), Bolondi ha iniziato a modificare qualche fotografia con le tecnologie digitali, ritoccandone i valori cromatici allo scopo di evidenziare passaggi tematici nell’impaginato del libro.