Demetrio Paparoni – uno dei più importanti studiosi e critici d’arte contemporanea – ha presentato nel mese di novembre il suo ultimo saggio “Cristo e l’impronta dell’arte”, edito da Skira. Il critico ha qui indagato approfonditamente le modalità con cui gli artisti si sono accostati, nelle diverse epoche, alla figura di Cristo al fine di rendere visibile ciò che visibile non è. L’obiettivo prioritario dei pittori inizialmente fu quello di elaborare un linguaggio universale attraverso l’utilizzo di un repertorio iconografico largamente condiviso in un mondo in cui si andava sempre più diffondendo il tipo di narrazione cristiana che nell’arte stessa, del resto, trovava un veicolo di persuasione. Tale patrimonio visivo comune, permettendo di superare la sfera soggettiva è stato, infatti, in grado di definire il senso di appartenenza a una comunità. La percezione dei capolavori del passato – e delle narrazioni cristologiche in particolare – è però mutata con lo scorrere del tempo per effetto dello sviluppo del pensiero scientifico e della laicizzazione della società. Si è iniziato ad apprezzare il valore storico ed artistico dell’opera e la capacità dell’autore di dare immagine ad un’idea di bellezza attraverso la sua abilità di far prevalere il linguaggio universale sulla narrazione. Gli artisti ricercano da sempre un ideale di bellezza anche nelle rappresentazioni del terrifico, come ad esempio in Giuditta e Oloferne dipinto nel 1599 da Caravaggio o il Polittico di Issenheim di Grünewald, ed è proprio a partire da quest’aspirazione che dall’Ottocento fino ai giorni nostri i cambiamenti storico-filosofici li hanno portati a sperimentazioni espressive talmente radicali dal ridefinire via via tale idea di bellezza nell’immaginario collettivo.
Partendo da questi presupposti, Demetrio Paparoni in “Cristo e l’impronta dell’arte” esamina come i pittori abbiamo ridisegnato, non solo sul piano iconografico ma anche teologico, la figura di Cristo alla luce di questi profondi mutamenti. L’immagine del figlio di Dio ha subito una secolarizzazione facendosi l’emblema di una più ampia sofferenza umana al di là delle singole confessioni religiose. Questo è palese in quelle rappresentazioni dipinte da artisti molto diversi tra loro per cultura, provenienza ed educazione religiosa, come Max Beckmann e Marc Chagall che trasferiscono su questa figura narrazioni e sentimenti strettamente legati alla propria vicenda personale: nei loro dipinti egli diviene la vittima sacrificale degli eventi storici che hanno segnato il loro vissuto. Secondo Paparoni infatti «Per Beckmann Cristo è la figura che più di ogni altra si presta a esprimere il disappunto nei confronti di un Dio che ha permesso gli orrori della Prima guerra mondiale, per Chagall la figura sulla croce è sempre un ebreo ed è legata alle vicende dei progom russi – i massacri e i saccheggi subiti dagli ebrei russi tra il 1881 e il 1921 – e allo sterminio del popolo ebraico perpetrato dai nazisti». Chagall ritenne ad esempio che la crocifissione fosse il tema che meglio avrebbe consentito ai cristiani di comprendere la gravità delle persecuzioni nei subite dal popolo ebraico. Dalla prima, che dipinse nel 1912, utilizzò spesso quest’argomento. Contrariamente a quanto avviene nelle tradizionali crocifissioni ove la narrazione è incentrata sulla sofferenza del figlio di Dio, in queste i patimenti dei personaggi che popolano la scena sono equiparati a quelli dell’uomo in croce; l’evento viene ambientato nel paesaggio del Golgota e si mostrano sinagoghe in fiamme ed un popolo che fugge, senza pace. Per Chagall non vi è dunque salvezza, Cristo è qui solo un uomo comune, martirizzato come il resto della popolazione. Egli si avvale inoltre di un tipo iconografia onirica, che si allontana dal reale, e quindi dall’uso che la Chiesa cristiana ha fatto per secoli della sofferenza di Cristo in croce, al fine di costringere chi guarda – attraverso una rappresentazione dell’assurdo – a riflettere sull’irragionevolezza di quanto accaduto veramente agli ebrei.
In “Cristo e l’impronta dell’arte” Demetrio Paparoni propone inoltre interessanti e inedite analisi che consentono, ad esempio, di mettere in relazione le innumerevoli opere realizzate attraverso l’impronta del corpo umano, come le complesse Antropometrie create da Yves Klein negli anni ’60 del XX secolo e la Sindone che molti cristiani considerano l’immagine acherotipa – cioè non fatta a mano d’uomo – di Cristo, l’impronta del suo corpo. La dimensione mistica del pensiero di Klein porta il critico a ritenere che le opere prese in esame in questo saggio siano consapevoli tentativi di ottenere con la sperimentazione nell’arte quel che nella Sindone accade in ambito sacrale: in altre parole l’artista affronta, e declina attraverso la sua visione personale, la tematica del trascendente. Un’altra notevole indagine, strettamente collegata alla Sindone di Torino, è quella condotta sulle rappresentazioni del velo della Veronica, il tessuto che sarebbe stato usato da questa donna per asciugare il volto di Cristo durante la sua salita al Calvario. L’immagine, anche in questo caso, sarebbe rimasta impressa sulla stoffa, facendone una manifestazione sensibile del divino. In particolare mi ha colpito, nel corso della lettura, la recentissima e personalissima interpretazione che Francesco Clemente ne ha dato nel ciclo di tre pastelli su carta Veronica Vera (2015). Il pittore ha scelto come impronta sul velo della Veronica tre volti di animali – la scimmia, l’asino e il capro – che corrispondono a tre momenti della passione cristologica: rispettivamente alla derisione, la salita al Golgota e la crocifissione. Si tratta di animali i cui nomi sono usati con connotazioni dispregiative, ma la scimmia in particolar modo, mentre l’asino rappresenta il simbolo della fatica che ben si adatta a rappresentare l’ascesa al Calvario; il capro infine è considerato l’animale sacrificale per eccellenza. Il cambiamento del colore del velo, sempre più scuro, sottolinea qui il cammino verso la morte, senza tuttavia creare sconvolgimenti nella natura. Il cielo non si oscura come nel racconto evangelico, ma resta della stessa tonalità di blu utilizzata da Giotto e gli uccelli posati sul filo che tiene il terzo velo sembrano trovarsi sulla croce, ma con un atteggiamento che trasmetta naturalezza. Per il Paparoni la scelta di Clemente di dare all’immagine della Veronica sembianze animali sta a significare che – secondo l’artista – l’impronta di Dio è in tutte le sue creature e dunque l’essere umano, da solo, non può restituirci la rappresentazione del divino.
Ampio spazio è stato inoltre dedicato all’interpretazione che della figura di Cristo forniscono gli artisti cinesi contemporanei e, soprattutto, all’opera di Yue Minjun. Il pittore – oltre ad essersi autoritratto come Cristo – ha più volte ripreso dei dipinti legati alla tradizione cristiana, come il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca (1450 circa) o la Deposizione del Caravaggio (1602-1604), attribuendo però le sue sembianze a tutti i personaggi del quadro, che tra l’altro ritrae con uno smagliante sorriso sciocco dipinto sul volto. Influenzato dalla filosofia di Laozi e Zhuāngzǐ, l’artista ritiene infatti che la risata sia la risposta emotiva che consente di superare il disagio in cui ci pone la nostra condizione di esseri umani, un’opposizione che smorza i conflitti interiori e sociali ed inoltre consente di raggiungere il distacco necessario alla propria serenità interiore. Si può inoltre affermare che «nel dare i propri tratti somatici a Cristo e agli apostoli, legando nel contempo la rappresentazione alla filosofia di Laozi e Zhuāngzǐ, egli sottolinea che i valori umani trasmessi dalle religioni che hanno rispetto per l’uomo e per la natura trascendono la cultura d’appartenenza». Parallelamente Minjun ha lavorato ad un altro ciclo di dipinti dal titolo Scene, in cui riprende alcuni capolavori della storia dell’arte cinese ed occidentale privandoli però totalmente della presenza umana. A questo ciclo appartengono le tele che fanno riferimento all’Annunciazione di Beato Angelico e alla Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino di cui il pittore ha conservato solo l’ambientazione e gli oggetti. Questo artificio gli ha così consentito di mettere in evidenza il globale senso di perdita dei valori umani e culturali e lo spaesamento psicologico che ad esso consegue. “Cristo e l’impronta dell’arte” di Demetrio Paparoni fornisce un’illuminante lettura di come la rappresentazione del divino si sia modificata nei secoli, di come la figura di Cristo – ormai parte di un patrimonio visivo universale – abbia subito un processo di laicizzazione che ha portato gli artisti a utilizzarla come veicolo di più ampi significati e messaggi. Il critico offre inoltre al lettore appassionato di storia dell’arte larghi spunti di riflessione sul passato, il presente, ma anche sui possibili sviluppi futuri della materia, poiché è evidente che l’approccio all’immagine del figlio di Dio e al trascendente in generale continuerà a evolversi col progredire del pensiero filosofico, lo sviluppo di nuovi linguaggi e i mutamenti storici.