Un urlo fin troppo famoso, nato da un boato che ha schiantato nel vuoto della gola la corporeità dell’artista e forse anche la sua anima. Esagerato! Munch o gli eccessi della divulgazione?
Si potrebbe anche trasformare quell’urlo in un archetipo del dolore umano, non certo astratto ma di natura metafisica: il confine tra invisibile e visibile qualche volta si attraversa facilmente. Certamente si, ma l’urlo, se c’è stato, deve essere accaduto in un corpo singolare! Vissuto come esperienza. Come il proprio sentire in relazione al mondo.
Ma che cos’è l’esperienza e dove si manifesta e nasconde il soggetto nell’arte? E la percezione?
Merleau-Ponty e Husserl antepongono, alla certezza riflessivo cartesiana del proprio io come soggetto, la certezza affettivo-relazionale del proprio essere “soggetto”, cioè affetto o “colpito” da qualcosa. Affetti, si aggiunge in seguito, anche da sentimenti effusi nello spazio e, per l’artista, anche nell’opera, sentimenti che determinano non solo lo stato d’animo, ma anche le scelte teoriche e pratiche degli individui. Esperienza fenomenologica dunque e, in seguito, altro.
All’io cartesiano come autonoma cosa pensante è subentrato un io che, gettato nel mondo a percepire, si esperisce autenticamente solo nella relazione, ossia nel modo in cui gli accade di essere nel mondo attraverso il suo sentire. La percezione è una specie di verifica ontologica che, attraverso il nodo relazionale tra il soggetto e il mondo, genera la certezza di sé e della realtà. Nella percezione in quanto atto intenzionale (Lambert Wiesing) , cioè proteso “verso”, è reale non solo il soggetto: anche il percepito è assolutamente reale. In essa accade una reale compresenza spazio-temporale di percipiente e percepito. Il percipiente acquista una conoscenza diretta del fatto di essere un corpo percepibile tra altre cose percepibili: è certo di esistere e di non essere solo al mondo.
Passando dall’archetipo a umili oggetti insignificanti, portati per un attimo sotto al mio sguardo dal volubile vento – una piccola foglia e un quasi invisibile fiore di bouganvillea pronti a scomparire – mi son chiesta per quale motivo la loro presenza avesse richiamato la mia attenzione. Prima che mi sfuggissero per sempre, li ho fotografati, ma quando ho guardato la loro immagine sullo schermo, mi è sembrato non solo di non sapere chi fossero, ma che mi nascondessero una realtà diversa. Sottoponendoli a un processo digitale trasformativo, sono riuscita a tirarne fuori un’alterità sconosciuta, cercando, ma senza sapere consapevolmente “che cosa”, fino a quando essa stessa non mi ha detto di fermarmi: è stato come se la foglia e il fiore avessero risposto alla mia domanda. E’ nato un luogo colorato che forse suggerisce che cosa avvertono le particelle della fisica quantistica, rispetto a quel “luogo” che le contiene. Ma è una sensazione sopraggiunta solo a lavoro finito. La trasformazione estetica rincorre la mutabilità dell’essere.
Ogni cosa, mentre ci appare, ci guarda, per cui il nostro sguardo non sarebbe che uno sguardo di risposta allo sguardo delle cose. Lo sguardo dell’artista s’immerge nell’elemento, realizzando una comunicazione espressiva, anziché segnico-contenutistica. Il “sentimento” contenuto nella cosa viene offerto al percipiente ma non è dipendente da esso.
Attraverso la mia percezione immaginativa le due piccole cose hanno acquistato una corporeità materica quasi invadente e mostruosa, che tuttavia le ha riportate in vita. La loro immagine deborda enormemente dalla visione prospettica quattrocentesca, spaziale ed emotiva, intenzionata a situare l’oggetto reale in una zona mentale sovradeterminata dal controllo razionale, visione discendente da un modello di conoscenza che si fondava su una base ontologica stabile e unica.
La realtà quasi inquietante in cui si sono trasformate la mia foglia e il mio fiore, nasce da un’immedesimazione empatica con la realtà? Dalla trasfusione in essa della mia personale tonalità emotiva del momento? O è il loro ESSERE che viene stanato dal mio sguardo? Un essere diverso dall’apparenza, non certo di natura trascendentale, ma anch’esso relazionale.
Certamente il vissuto entra nelle attività consapevoli e intenzionali della persona. Così anche nelle immagini. L’ “autobiografico”, cercando e trovando percorsi molteplici per uscire all’esterno, scrive la sua presenza nell’opera. Ma questa categoria individuale è una soglia che rivela una porta. Chiusa o socchiusa?
Saffo, Catullo, Petrarca e innumerevoli voci, vive per sempre nella storia, come le ombre dell’anima trasfuse nella pittura dal Caravaggio, e poi le mappe della mente scritte da Freud e da Lacan, per citare solo due giganti che hanno eretto le strutture architettoniche dell’animo umano, ci pongono di fronte al teatro del vedere, del toccare e del sentire. Ma anche dell’interrogazione umana. Qui tramonta il fondamento ontologico dell’UNO. La differenza dall’essere è scritta negli enti, ma l’ente manifesta l’essere che si nasconde (Heidegger). Paradosso teorico per il quale il significato dell’evidenza sensibile rimane asistematico, ateorico, estraibile attraverso una conoscenza che si fondi sull’assenza di fondamenti, ribadendo la solitudine dell’esserCI, del sé e del mondo. Ma è l’essere la condizione e l’evento per cui tutti gli oggetti e le persone SONO. L’occultamento dell’essere genera il manifestarsi degli enti, come il mezzo chimico fa emergere la fotografia. Solo l’uomo può sforzarsi di porsi fuori di sé e pensare l’essere.
Ritornando all’arte, osserviamo che, anche quando la tonalità emotiva dell’opera non indulga in effusioni espressioniste, la sua origine e il suo processo di manifestazione sono radicate nella mente dell’artista. Qui accade il play back della ragione: la scena primaria, che ha dilatato il suo territorio dopo l’eclissi dell’inconscio freudiano, si è estesa in zone mentali colonizzate anticamente dalla ragione. Il soggetto abita l’opera anche quando sprofonda nelle silenziose modalità formali dell’apparizione di ciò che tace. Se queste sono generate da modelli mentali astratti o da contenuti concettuali distanti dal vissuto esperienziale, tuttavia sono profondamente ancorate all’esistenza dell’artista. Il soggetto, al pari di ogni ente, è portatore di un nodo ontologico che investe tutto ciò che appare. Il dentro e il fuori costituiscono lo stato della sua condizione umana.
L’urlo nacque da Munch o fu il mondo che lo emise?