Il primo mito da sfatare, dati alla mano, è quello della scarsa produttività dei magistrati italiani. Il problema di cronica lentezza che affligge la giustizia nel nostro paese è da ricercare altrove. Michele Vietti, nel suo nuovo lavoro Facciamo giustizia (UBE 2013, 188 pagg., 16 euro), individua e propone alcune delle cose che possono essere fatte, a costo praticamente zero, con una logica pragmatica e operativa.
Perché avere una giustizia che funziona non è solo un segno di civiltà, ma è anche, come spiega il presidente del Consiglio Mario Monti nella prefazione, un aspetto che «ha dirette e plurime correlazioni con l’economia», se è vero che il rapporto 2013 del Doing Business, redatto dalla Banca Mondiale, ci colloca al 160° posto su 185 paesi per la tutela giurisdizionale dei contratti: «La logica che muove gli investitori nell’allocare le proprie finanze nei mercati ormai globalizzati», scrive Monti, «è sempre più legata anche alla valutazione dell’efficienza dei sistemi giudiziari dei paesi in cui gli investimenti debbono essere effettuati».
Il principale problema, suggerisce Vietti nel libro, è quello di alleggerire la macchina giudiziaria, perché se è corretto affermare che per quanto riguarda il giudizio di primo grado siamo entro i limiti massimi stabiliti a livello internazionale (463 giorni nel 2012), la situazione precipita per quanto riguarda i giudizi di secondo grado e quelli in Cassazione, soprattutto se si considera che, nel 70 per cento dei casi, in appello viene confermata la pronuncia di primo grado. E la soluzione, come propone Vietti anche prendendo spunto dai sistemi procedurali di altri paesi, sia di tradizione giuridica continentale sia di common law anglosassone, potrebbe essere quella di non ammettere tutte e indiscriminatamente le controversie ai gradi successivi, ma di istituire dei filtri e dei criteri per distinguere le domande che meritano effettivamente di essere prese in considerazione: «Il processo», scrive Vietti, «non va più concepito come un work in progress che si dipana in più stadi; viceversa diventa necessario valorizzare e ridare centralità al giudizio di primo grado».
Un altro tema caldo, che l’autore affronta con particolare meticolosità, è quello dei riti alternativi al dibattimento, con ciò facendo riferimento in particolar modo al sistema nordamericano. Negli Stati Uniti «il sistema processuale funziona perché filtra e seleziona i processi e ne dirige una grande quantità verso soluzioni alternative al dibattimento», con la consapevolezza, purtroppo lontana dalla nostra mentalità, sottolinea Vietti, «che un ordinamento processuale moderno deve fondarsi (anche) su una pragmatica valutazione costi/benefici: non si può pensare di impiegare risorse economiche, umane e organizzative in un contradditorio articolato e complesso per infliggere mille euro di multa».
Un sistema tortuoso, quindi, fondato anche su rendite di posizione dure da scalfire ma che è necessario combattere affinché si possa ricostruire la giustizia per restituirla al suo ruolo originario di «servizio ai cittadini». Le indicazioni di Vietti vanno tutte in questa direzione.
Michele Vietti, avvocato civilista, è stato eletto alla Camera per quattro legislature, ha svolto ruoli di governo ed è stato presidente delle Commissioni di riforma del diritto societario e fallimentare. Svolge attività di docenza presso diversi atenei. È vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Nel 2011, sempre per Egea, ha pubblicato La fatica dei giusti.