Chiara Marchelli è nata ad Aosta ed è laureata in Lingue Orientali. Prima di stabilirsi a New York nel 1999, ha vissuto in Belgio e in Egitto. Grazie alla sua attività di scrittrice, ha ottenuto la cittadinanza americana. Il suo primo romanzo, “Angeli e cani,” pubblicato nel 2003 da Marsilio editore, vinse il Premio Rapallo Carige Opera Prima. Nel 2007 ha pubblicato un’antologia di racconti, “Sotto i tuoi occhi” (Fazi editore). Attualmente insegna italiano e scrittura creativa alla New York University e collabora, in qualità di editor, traduttrice e copywriter, con case editrici americane e italiane.In occasione della presentazione del suo nuovo romanzo “L’amore involontario” (Piemme), presso la libreria IBS di Roma il 6 giugno scorso, Chiara ha concesso questa intervista a Cultura & Culture.
Chiara, tanti anni che vivi a New York, spesso in giro per il mondo. Ti faccio la stessa domanda, provocatoria, che ho posto pochi giorni fa, in questa libreria, a Tullio De Piscopo: bisogna per forza emigrare per avere successo?
Oddio, bisognerebbe prima definire cosa vuol dire avere successo! Comunque, io sono emigrata quindici anni fa, prima di pubblicare il mio primo libro, e l’ho fatto perché scappavo, per tutte quelle ragioni per cui si prende e si va, senza avere alcuna ragione pratica per farlo. Mi ero appena laureata, dovevo andare a vivere a Il Cairo, perché mi sono laureata in arabo, e poi ho cambiato idea e sono andata là per spirito di avventura, di scoperta. E’ vero che in America ho un lavoro, a cui affianco delle collaborazioni anche con l’Italia, che mi dà uno stipendio sufficiente per poter avere molto tempo per scrivere. Quindi, per rispondere alla tua domanda, in un certo senso direi di sì. Qui ho provato, nel 2011 sono tornata, non ho forse pazientato molto, perché un anno non è sufficiente, però non c’era proprio modo di avere lo stesso equilibrio tra stipendio e tempo.
A proposito di questo, oggi sai che tanti giovani stanno lasciando l’Italia o stanno progettando di farlo nei prossimi anni, a seguito delle vicissitudini economiche e sociali che ben conosci. Con la tua esperienza, cosa ti senti di dire a questi ragazzi?
Dunque, io insegnavo scrittura creativa a Pavia a dei ragazzi che di lì a poco si sarebbero laureati. A seconda di quello che mi dicevano io rispondevo… se capivo che erano veramente determinati a mettersi in gioco, io dicevo di andare, perché qui è tutto molto complicato. Non lo consiglio a tutti, perché una volta che parti sei andato, c’è una separazione faticosa, dolorosa, c’è la solitudine… non è per niente facile, non è che basta partire e il gioco è fatto!
Ho letto infatti in una tua vecchia intervista, in cui parlavi dello sradicamento, e di quanto sia difficile una volta che sei partito, riappropriarsi di un terreno in cui rimettere radici.
Esatto, ma questo nessuno te lo dice prima! Io l’ho sperimentato e ho a che farci ancora oggi, dopo quindici anni! E’ qualcosa che non si risolve. Quindi penso che si debba partire minimamente coscienti di questo aspetto, non troppo perché altrimenti ti incastri da solo e non vai più da nessuna parte. E’ un po’ triste incoraggiare i giovani a lasciare l’Italia. Però quello che ho visto in quell’anno che ti dicevo, a Pavia, e quello che vedo ancora adesso ogni volta che torno, non è il terreno ideale per lavorare, per crescere, per esprimersi… ma certo non credo che partire sia la soluzione per tutti.
Cambiamo argomento. Mi ha molto colpito in una tua intervista rilasciata a Marie Claire, quello che hai detto sull’amore volontario, e cioè che è tale quando ha la possibilità di farsi scelta e poi hai aggiunto: spesso nemmeno in quel caso! Approfondiamo questo concetto.
Ma sì, perché spesso mi chiedono il perché di questo titolo del mio romanzo (L’amore involontario – ndr) e l’amore involontario è quello che ti tocca, in cui nasci, da cui non puoi fuggire, generalmente quello familiare. L’amore volontario è quando incontri una persona e investi su quella delle cose, dei sentimenti… però molto spesso ne sei travolto e quindi non è più volontario. Ci piace pensare di poter controllare i sentimenti, la vita, ma non è così. Io poi, in particolar modo, sono totalmente incapace di ragionare sui sentimenti, sono poco controllata, molto istintiva, prendo e vado, spesso indipendentemente dalle conseguenze che si prospettano. Ci sono persone più caute in questo. Però, veramente, non credo che un sentimento vero sia in alcun modo controllabile.
Perché la scelta di raccontare una storia molto forte sulla relazione tra due fratelli (Irene e Riccardo –ndr), sul dolore, sul lutto e tutte le loro declinazioni e sfumature? C’è stato un episodio particolare che ti ha ispirato o è stato un processo lento?
Un processo lento, sì. Una storia che si è sedimentata dentro di me per molto tempo. Ho un fratello, non è un romanzo autobiografico, ma è ovvio che ci sono delle cose che riguardano me e lui, i ricordi di infanzia soprattutto sono comuni. Come per tutto quel che scrivo, ci può essere la scintilla, la suggestione. Credo che ci sia stato un momento in cui ho sentito la necessità di dirigermi a parlare della famiglia, argomento che mi interessa molto. Il fatto che abbia scelto una storia tra un fratello e una sorella, quando la sorella fa il mestiere che faccio io e il fratello ha due figli come il mio, mi induce a pensare che evidentemente sono andata a cercare delle cose che potessi conoscere ed esprimere.
Noi ci chiamiamo Cultura & Culture. Vorrei un tuo pensiero sulla situazione e sul ruolo della cultura nel momento storico che stiamo vivendo.
Fondamentale, fondamentale! Bisognerebbe capire che la cultura porta anche dei gran soldi, se la si utilizza nel modo giusto. Sto per dire una gran banalità, ma penso al patrimonio artistico italiano che non è assolutamente valorizzato e sfruttato. Si potrebbe costruire un impero sulla cultura, se solo fossimo capaci di farlo!
Paolo Leone