Inizia il viaggio di Cultura & Culture alla scoperta dei nuovi direttori stranieri incaricati dal Ministro Franceschini di dirigere altrettante prestigiose istituzioni museali italiane. Il fatto ha suscitato non poche polemiche, come se il nostro patrimonio artistico e culturale potesse essere “minacciato” da una mano che, non essendo italiana, avrebbe potuto causare chissà quali irreparabili danni. Ovviamente la follia di tale punto di vista è inversamente proporzionale al livello di assoluta eccellenza che i nuovi sette dirigenti hanno dimostrato di avere nel corso di una lunga carriera, costellata di cariche importanti. L’assurda xenofobia che l’Italia, purtroppo, non manca mai di mettere in risalto quando si tratta di accoglienza è comunque un problema che resta circoscritto a pochi media nazionali e al loro pubblico, poiché la stragrande maggioranza del Paese decide con chi stare in base al merito, e non a questioni di nazionalità. Come non manca di sottolineare James Bradburne, il nuovo direttore della Pinacoteca di Brera a Milano. 60 anni compiuti da poco, già a capo per tanti anni di Palazzo Strozzi a Firenze, Bradburne è di origini canadesi, parla sei lingue, ha la doppia nazionalità canadese/britannica e vanta incarichi istituzionali ricoperti in tutto il mondo, da Francoforte ad Amsterdam, da Parigi agli Stati Uniti e alla Cina, tutti inclusi in un curriculum professionale di quasi venti pagine. Che poi risulta l’unica cosa che conta quando si decide di affidare un’istituzione come la Pinacoteca a un direttore: il merito. Il dottor Bradburne ci ha parlato dei suoi progetti per Brera, della sua esperienza a Firenze, del suo amore per l’Italia e del dispiacere nell’essere stato al centro di una polemica del tutto inutile. Parlandoci in un italiano di gran lunga migliore di quello di molti nostri concittadini. Ascoltiamolo.
Bradburne, cosa ha provato quando le hanno detto del Suo nuovo incarico di direttore presso la Pinacoteca di Brera?
Ne sono stato informato qualche giorno prima della conferenza stampa del Ministro Franceschini, ovviamente. Il Brera rappresenta una grande sfida, per me. C’è la proposta di una forma di autonomia da valutare bene, perché dobbiamo capire quali sono i confini di questa autonomia. A Palazzo Strozzi, ad esempio, questa era totale perché gestita da una fondazione pubblico/privata. Agivamo quindi con più libertà. Qui, invece, l’autonomia è all’interno del Ministero della Cultura e quindi noi rimaniamo un ente pubblico. Per cui, giustamente, ci sono più procedure e più leggi da rispettare. E’ un’autonomia mitigata, ma spero che renda la gestione del museo più snella ed efficiente, in ogni caso. E in grado di accogliere i progetti che saranno ospitati dalla Pinacoteca.
Lei è stato Direttore di Palazzo Strozzi. Crede sia possibile applicare lo stesso modello di sviluppo utilizzato a Firenze anche alla Pinacoteca?
Sì, ma non al 100 per cento. Nella mia carriera ho gestito musei pubblici, privati e misti e ho potuto sperimentare tutti i pattern possibili di gestione di un’istituzione culturale. Detto questo e tenendo conto che la perfezione non esiste, io dico però che l’esperienza a Palazzo Strozzi e il suo modello di government autonoma era molto vicina all’ideale. Brera è sì dotata di un’autonomia, ma come detto è all’interno del Ministero della Cultura, per cui con certi limiti. Io e tutti i nuovi direttori appena nominati dei musei dobbiamo pian piano scoprire dove sono questi confini, capendo cosa sarà facile, difficile o impossibile fare. Per me è molto stimolante ed è anche l’occasione per attuare una vera rivoluzione, ma è terra nuova, siamo dei co-architetti che devono creare nuove forme di amministrazione per sveltire la gestione del patrimonio culturale. Tenendo ben presente che le ricchezze artistiche di questo Paese dovrebbero rimanere in mani pubbliche e non private. Dobbiamo trovare il modo di aprire il museo e le sue collezioni alla gente, alla città e al Paese in modo più snello ed efficiente, creare valore, investire e costruire strutture nuove.
E quanto tempo ci vorrà, secondo Lei, per raggiungere questi obiettivi?
Realisticamente parlando, dobbiamo aspettare almeno sei mesi per vedere i primi frutti del lavoro. Dobbiamo creare una struttura, un organigramma, creare una squadra insomma. Oltre al progetto culturale, c’è anche quello di management delle risorse umane ed economiche. La prima cosa è formare uno spirito di squadra e condividere gli scopi. Nessuno può arrivare e comandare, bisogna prendersi il tempo per ascoltare, ascoltare e ascoltare. Dobbiamo costruire un team unito con finalità condivise. Nel mio caso, di circa 175 persone. Questa è la prima cosa. Secondo punto, io direi di cambiare l’offerta del museo, la sua immagine, la percezione che la gente ne ha. Si parla di un lavoro di due-tre anni. A Palazzo Strozzi ce ne sono voluti quasi otto per mettere tutto a posto! Un’istituzione del genere, insomma, è una cosa molto complessa: i veri cambi strutturali si prendono il tempo di cui hanno bisogno, ecco.
Se dovesse riassumere in tre parole d’ordine il lavoro che dovrà distinguere la sua direzione al museo, quali sceglierebbe?
Il visitatore è al centro dell’esperienza e Brera è al centro di Milano. Il mio progetto ha due aspetti: l’esperienza di andare alla Pinacoteca dovrebbe avere una valenza molto centrata sullo spettatore, sulla sua comodità e sulla preparazione a fargli sperimentare l’arte. Dobbiamo creare i presupposti affinché il pubblico recepisca bene tutta la collezione che si trova a Brera. In secondo luogo dobbiamo fare in modo che questa istituzione sia legata alla sua città.
Porterà con sé qualche membro di fiducia del Suo staff da Palazzo Strozzi?
Non lo so. Inizierò col mio nuovo incarico il primo ottobre e dovrò capire innanzitutto che tipo di squadra avrò. Quando saranno chiare le competenze di ognuno e comprenderò cosa manca e cosa no, potrò pensare di aggiungere risorse. Quando so chi siamo, posso immaginare dove andare e come!
Cosa si aspetta dal governo italiano e dal ministro Franceschini in particolare?
L’unica cosa che mi aspetto davvero è che lui continui a proteggere e sostenere il principio di autonomia. Franceschini ma anche Renzi. Vorrei che sostenessero questo progetto perché senza un’autonomia vera e propria non possiamo andare avanti.
Ci sono state alcune polemiche in merito alla nomina di sette direttori stranieri ad altrettante istituzioni museali italiane. Lei come ha vissuto questa faccenda? Ritiene ci sia una sottile nota razzista, in questo senso?
Ni. Io credo che c’era da aspettarselo ma anche che, nella società contemporanea, sia sbagliato. Viviamo in un’Europa che cresce e in un mondo in cui Sebastian Vettel e Kimi Räikkönen sono i due piloti della Ferrari. Voglio dire, non possiamo parlare di nazionalità o cittadinanza come di un fattore importante. Se Vettel vince per la Ferrari, beato lui! Se il dibattito è sulle competenze, è un’altra questione: io sono assolutamente pronto a mettere sul tavolo il mio curriculum e a discutere se ci sono persone migliori o peggiori di me. Però fare polemica sulla nazionalità non è un argomento valido. La domanda giusta sarebbe: “Queste persone sono quelle giuste per portare avanti l’autonomia del museo?”. Nel mio caso, io metto la mia esperienza al servizio di questo bel Paese, in cui vivo da quasi dieci anni e che amo molto. Se qualcuno vuole litigare con me lo deve fare attraverso le mie competenze, non tramite la mia nazionalità.
L’Italia ha un rapporto strano con l’arte: in questo campo è il Paese più ricco d’Europa, però al tempo stesso non riesce a sfruttare fino in fondo tutte le sue bellezze. Lei che ha lavorato e studiato in molti Paesi del mondo (Italia inclusa), che opinione si è fatta della nostra nazione?
E’ una specie di schizofrenia che vedo un po’ dappertutto. E’ vero quello che dice: le collezioni in Italia sono senza dubbio le più ricche d’Europa, circa l’80 per cento del patrimonio occidentale. Però queste opere sono spesso poco valorizzate. E’ un problema che non riguarda solo la cultura. In Italia la famiglia è centrale, ma al museo non c’è niente per i bambini. Questo non me lo spiego, posso soltanto propormelo come obiettivo da raggiungere e superare. La sfida a Brera è di trovare nuovi modi di valorizzare la collezione permanente per renderla più aperta alla grande diversità di pubblico che ci deve essere. Non voglio entrare in polemica, dico solo che possiamo sfruttare questa opportunità per sperimentare modalità diverse di sviluppare la collezione permanente del museo.
Lei compirà 60 anni il prossimo 30 settembre. Che regalo le piacerebbe ricevere, a livello professionale?
Ne ricevo uno il primo ottobre: vado a Milano a lavorare! Ho parlato qualche giorno fa con i miei amici cinesi e loro mi hanno spiegato che a 60 anni si completa un ciclo, mentre a partire dal giorno successivo la vita ricomincia. E nel mio caso, non potrebbe essere p