Volti di donne che condividono la stessa condizione, occhi con il medesimo velo di tristezza. Donne velate, donne dai tratti orientali, donne, infine, che vivono non molto lontano da noi, semplicemente sull’altra sponda dell’Adriatico. Donne di luoghi diversi, ma tutte accomunate da un simile destino: quello di essere vittime della guerra. I loro volti sono oggi parte di un progetto dal titolo “One Person Crying: Women and War”, un’iniziativa pensata e realizzata dalla fotogiornalista americana Marissa Roth. Quasi trent’anni di scatti sul campo e di incontri con persone che hanno vissuto in prima persona il dramma della guerra, della perdita dei propri cari, per poter documentare come la violenza abbia drasticamente modificato le loro vite.
Un progetto ambizioso, che nel giro di tre decenni ha portato la nota giornalista americana, attualmente collaboratrice del New York Times, a visitare una quindicina di Paesi diversi e a incontrare «centinaia di donne – racconta sul suo blog – che sono sopravvissute alla guerra e al conseguente senso di mancanza, pena e disagio inimmaginabile».
L’IDEA – Dalla Bosnia Erzegovina all’Irlanda del Nord, dal Kosovo al Vietnam, dal dramma dell’Olocausto all’Afghanistan, dall’assedio di Berlino al termine della seconda guerra mondiale alla Cambogia. Viaggi tra guerre presenti e conseguenze di guerre passate, per arrivare a documentare un’unica grande verità: «quelle donne – spiega Marissa Roth – sono essenzialmente le stesse ovunque. Ho attraversato il mondo intero – racconta – e ho fotografato, intervistato, osservato gesti e particolari raccapriccianti, al fine di documentare come la guerra abbia irrevocabilmente cambiato la loro vita».
Ma come è nata l’idea di questa raccolta di scatti? Siamo nei primi anni Ottanta quando per la prima volta la fotoreporter decide di intraprendere un viaggio nelle terre che le hanno dato le origini: quella ex Jugoslavia dalla quale il padre, ebreo scampato dall’Olocausto, è riuscito a scappare alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale. Novi Sad, nell’attuale Serbia, è il luogo in cui buona parte della sua famiglia ha perso la vita e, proprio per questo, rappresenta un ottimo punto di partenza. Da lì, per una trentina di anni, viaggi, paesi diversi, incontri e circa un centinaio di volti, immortalati per dimostrare «come la guerra – conclude – non faccia distinzioni nel distribuire pene e sofferenze».