“Leonardus Vincius Ritratto di se stesso assai Vechio”. L’inoppugnabile prova dell’autenticità del famosissimo autoritratto di Leonardo da Vinci starebbe in questa breve frase scritta sul margine inferiore del disegno, che il maestro toscano realizzò tra il 1515 e il 1516 e che viene gelosamente custodito in un caveau della Biblioteca Reale di Torino. Almeno fino a pochi giorni fa, quando per la prima volta l’opera è stata trasportata, attraverso misure di sicurezza straordinarie, ai Musei Capitolini di Roma, dove rimarrà in mostra fino al prossimo 3 agosto. Un evento che si annuncia unico e molto probabilmente irripetibile, visti il valore inestimabile del disegno e la sua estrema delicatezza, messa a dura prova da secoli di deterioramento. Il museo pubblico più antico del mondo, dunque, accoglie per circa un mese e mezzo il più famoso autoritratto della storia, quello più riconosciuto e riconoscibile in ogni angolo del globo, a cui pensiamo istantaneamente ogni volta che si parla di Leonardo. E che può vantare una storia controversa e affascinante, come tutte quelle legate ai capolavori vinciani. L’autoritratto fa parte, insieme ad altri 12 disegni autografi, della collezione grafica italiana e straniera dei secoli XV-XIX della Biblioteca Reale di Torino, acquistata da re Carlo Alberto di Savoia nel 1839 dall’antiquario Giovanni Volpato. Leonardo, morto il 2 maggio 1519, lasciò i suoi manoscritti e il corpus dei suoi disegni al fedele collaboratore Francesco Melzi. Gli eredi di Melzi, poi, dispersero la collezione vinciana e di questo foglio non si seppe più nulla, salvo ricomparire appunto nel 1839 quando Volpato lo vendette a re Carlo Alberto assieme alla sua collezione, che comprendeva circa 700 disegni italiani e più di 400 fogli di maestri stranieri. Tante sono state le analisi svolte sul disegno, che di volta in volta ci restituivano verità nascoste o svelavano particolari impossibili da cogliere con le tecnologie precedenti.
Questi lavori raccontano di un’opera caratterizzata dal rosso bruno tipico della tecnica con pietra rossa naturale con la quale Leonardo la realizzò, su una carta fabbricata con fibre di canapa e lino, compatibile con una datazione compresa tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500. È praticamente certo, quindi, che il Leonardo da Vinci realizzò il suo autoritratto durante il periodo francese al servizio di Francesco I, tra il 1515 e il 1516. Accesissimo appare, tuttavia, il dibattito mai sopito sull’autenticità del volto di Leonardo. Gli studi che si sono succeduti nel corso degli ultimi decenni si sono concentrati, tra le altre cose, sul suffragare la capacità del maestro di saper eseguire disegni con la stessa sicurezza di mano con la quale scriveva o eseguiva figure geometriche. L’autoritratto ne è la prova. Un foglio rimasto ancorato per tanti anni a una data, il 1512 e che attraverso studi più recenti viene invece collocato tra il 1515 e il 1516. Sembra abbastanza evidente, infatti, la somiglianza di stile con la cosiddetta “Allegoria della navigazione fluviale” di Windsor, del 1516. E non manca chi avanza confronti anche con alcuni particolari dei disegni del “Diluvio”, circa 1515. Quando poi dallo stile si passa all’iconografia, è facile sospettare che l’età rappresentata possa giustificare un ulteriore spostamento nel tempo e datare l’autoritratto addirittura al periodo francese, dopo il 1517, quando il sessantacinquenne Leonardo appare a chi lo incontra “vecchio de più de settant’anni”. Il famoso disegno di Windsor che ritrae un vecchio seduto accanto a vortici d’acqua ha già fatto pensare in molti a un profilo di Leonardo. Comunque, osservando il ritratto non si può non restare affascinati dalla straordinaria potenza espressiva del maestro toscano, alla quale contribuisce lo stesso formato della carta, che è infatti maggiore di quello di qualsiasi altro ritratto da lui disegnato, senza tener presente quello di Isabella d’Este al Louvre (un cartone forato per il trasporto in pittura) e il cosiddetto “Scaramuccia Capitano degli Zingari”, a Oxford, che appartiene alla categoria dei grotteschi. Nonostante la moltitudine di studi compiuti sull’opera, in tanti non sono ancora convinti che il disegno rappresenti il vero volto di Leonardo.
«“La testa di Torino” – afferma lo storico dell’arte austriaco Ernst Gombrich – non è necessariamente un autoritratto, e forse ancora una volta potrebbe trattarsi della personificazione del tipo favorito da Leonardo. Eppure chi nel ‘500 vi riconobbe Leonardo stesso avrà pur avuto buone ragioni per farlo». Più radicale, invece, lo studioso tedesco Hans Ost, secondo il quale il disegno sarebbe un falso eseguito da Giuseppe Bossi, segretario dell’Accademia di Brera a Milano, ai primi dell’800. L’ipotesi è ovviamente molto fantasiosa. Più seria, invece, l’opinione di Robert Payne, il quale suggerisce di riconoscere in quel volto il padre di Leonardo, Piero da Vinci, databile al 1503. Interpretazione interessante ma fondata sul presupposto sbagliato che Leonardo, in età avanzata, non fosse più capace di disegnare con la stessa “potenza di penetrazione psicologica” degli anni della maturità. Da non dimenticare, infine, l’idea dello stereotipo per cui anche l’aspetto realistico, che a prima vista si è inclini a riconoscere nel disegno di Torino, potrebbe essere il risultato di un processo di idealizzazione, considerando i numerosi profili e grotteschi in cui ricorrono caratteristiche fisionomiche che si compendiano al disegno: la fronte solcata da rughe, il naso aquilino, il mento marcato e la bocca col labbro inferiore sporgente. Una bella descrizione dell’opera è quella di Edouard Schurè del 1946: «Il ritratto è di un sorprendente realismo. Mai malinconia di vegliardo fu segnata con energia così incisiva. La maschera possente esce in pieno rilievo dalla bianca capellatura che si confonde in larghe onde con la fluente barba. La fronte è solcata da rughe, profonde come il pensiero che accusano, le pupille ardenti lanciano di sotto le folte sopracciglia un penetrante sguardo sul mondo ostile, ed il labbro inferiore si protende in avanti in una lieve smorfia di sdegno. Quest’uomo ha tutto veduto, tutto giudicato, tutto sofferto, non attende più nulla da alcuno. E tuttavia una inesplicabile luce, che ancora erra su quella fronte oppressa, ricorda che un tempo fu tocca da un raggio divino. È la testa d’un leone vinto dalla vecchiaia, ma pur sempre di un leone». Si è parlato anche di un possibile accostamento al viso del giovane in piedi sul lato destro de “L’Adorazione dei Magi”, di quasi 40 anni prima. Ma, a eccezione dello sguardo, che ha la stessa fissità e freddezza in entrambe le immagini, i due volti non hanno nulla in comune. Non dimentichiamo che per Leonardo, la pittura è “scienza”, quel qualcosa che mostra “il dentro”. Egli ama dare del pittore che dipinge un’immagine elegante, colta, sapiente. Come il volto sapiente del suo autoritratto, appunto. Leonardo, come abbiamo detto, realizza il suo disegno nel periodo francese, che è anche quello in cui compie i meravigliosi studi sull’anatomia, che mostra orgoglioso ai suoi ospiti di rango come il cardinale Luigi d’Aragona e i suoi accompagnatori. L’arte, per lui, è una “seconda creazione” e le fasi dello sviluppo del suo pensiero scientifico, dallo studio della meccanica dei pesi all’idraulica, alla geologia, all’anatomia, alla botanica e alla geometria, si riflettono costantemente nelle sue opere artistiche. La pittura è filosofia, cioè scienza. Il linguaggio più appropriato col quale comunicare la conoscenza del mondo sensibile. Ecco perché Leonardo stesso afferma: «Ed in effetto ciò che è nell’universo per essenza, presenza o immaginazione, il pittore lo ha prima nella mente, e poi nelle mani, e quelle sono di tanta eccellenza, che in pari tempo generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose». In questo autoritratto, nonostante gli evidenti segni del tempo e le dimensioni minute (circa 20 x 30 cm), c’è uno degli ultimi doni del più grande genio di ogni epoca all’umanità, che questo importante evento romano regala a sua volta al pubblico attraverso una mostra allestita in tre sezioni espositive, lungo le quali i visitatori potranno rileggere come in un romanzo gli avvenimenti più importanti della vita dell’artista e le vicende controverse che accompagnarono l’opera nei secoli.
Paolo Gresta