Non posso tacere: a maggio il mio cuore vola. Come un aereo che sorvola a bassa quota la bellezza del mio golfo, le possibilità di gioire della vita sono tutte a portata del mio sguardo. Le posso afferrare, perché perfetta è la loro forma nello spazio. Voglio le rondini? Mi basta guardare le porzioni del mio cielo e la mia attesa non verrà tradita dalla cattiveria del maligno marzo. Ho fame di verde? Anche le colline, di un viola marroncino per tutto il lungo inverno, ostentano ora le loro forme colorate di verde, di un verde prezioso e già maturo – non ancora scaduto dall’età di fine agosto – dal quale sembrano quasi diffondersi invisibili sorgenti di acqua e di luce: gemme di vita, che entrano nel corpo che – quasi vergognoso di associarsi ai giochi infantili di tutta la natura – le trasforma in attese cullate dalla pace.
Ma se nel ricordo striscia invasivo, come un serpente in agguato, quel film della tua vita in cui gioia o dolore stamparono per sempre il marchio dell’eterno, non ci sarà per te via di fuga possibile in cui quei momenti non ti rincorreranno per vicoli stretti e senza uscita, finché non ti cattureranno, per sferzarti con la violenza dell’amore e della morte.
Ho desiderio di sottrarmi. Voglio viaggiare nel mio nulla, finché il tempo lo concede. Nascondimi, maggio, come solo tu puoi fare, quando non mi distrae il freddo e non mi ammutolisce il buio, quando il brusio della mia strada mi accompagna fino al momento del riposo, e la pioggia ormai non fa paura. Diventa amica la vita stessa che, forse, il giorno prima si è divertita a tormentarti. Anche il tormento, a maggio, diventa passeggero. E se le rose e le campane rendevano prezioso questo mese nel tempo dell’infanzia, oggi sento il bisogno di tramandare ad altri l’incanto di quel tempo. Vorrei sfuggire, almeno in questo mese, all’assillo di chiedermi ‘perché’. Ma è in questo tempo che trovo facilmente le risposte. Non so perché, ma a maggio il senso dell’incompletezza, che non riguarda solo i fatti della vita, ma costituisce la caverna ontologica, profonda e senza uscita, di tutta l’esistenza, finalmente trova un po’ di spiegazione e di speranza: ci sarà pure, un giorno, il tempo di completare anche le cose e trovare le risposte.
Ma se riesco a riempirne solo una di quelle fenditure del nulla, per incanto la positività acquisita si estende a tutte le omissioni. Parlare qui di ‘metonimia’ sarebbe sferzare senza incanto l’emozione, con l’indifferenza addottrinata di qualche parte del mio sé. No, la positività che mi conquista ad ogni piccola vittoria sull’ignavia, ha qualcosa di veramente mistico e divino, è una vera sospensione dell’angoscia, che mi connette senza sforzo né richiesta alle trame misteriose dell’universo, alle quali volentieri consegno questo corpo – sensore insostenibile di estasi e tragedia – come se appartenessi anch’io a quelle forze sconosciute, che raramente si mostrano alle vie dell’intelletto. A maggio la loro sinfonia entra nella carne eludendo le vie consegnate al nostro udito e rimodella i vuoti che attendevano da tempo di essere forgiati. Ciò che sembrava impossibile da essere risolto, ritorna a essere plasmabile; ciò che era da tempo emblema di sconfitta, sembra per magia solo un ‘incompiuto’, evocando il ‘non finito’ dell’artista.
Spartiacque tra essere e non essere, la vita che fino a questo mese non si è spenta, ha superato ormai il limite previsto come fine. Lo so: qualcuno poco attento ai misteri di questa mia realtà, accanito e bloccato intorno alla normalità della sua vita, potrebbe dirmi che si tratta solo di benessere fornito a poco prezzo. Ma se è proprio grazie a questo prezzo che la bilancia pende adesso a modo mio, accolgo ogni invito dall’aria che respiro senza temere che, insieme a questa luce, svanisca nel gran buio la fede nel risveglio.
Ma si potrebbe trattare, semplicemente, mi accorgo ora, di un’illusione di armonia, forse assaporata con i sensi insieme alla speranza, in un tempo del passato, e poi fissata in qualche zona collegata facilmente alla possibilità di essere evocata, un’illusione che potrebbe sparire alla prima variazione dell’aria e dei colori. Potrebbe sparire, questa rinascita interiore, alla sola apparizione, portata dal reale, di aliene corrispondenze evanescenti in attesa di vincere l’infinitezza delle mie illusioni, anche, forse, quelle strisce bianche sull’asfalto, dispiegate a un quadrivio segnato da semafori normativi, tante in tutti i sensi, disegnate intorno a me dovunque volgo lo sguardo, evocanti sbarre di prigione, labirinti intrappolanti, verticalità di ascensori bloccati nel cemento, inquietudine di memorie smarrite proprio nel momento necessario, di figure dalle forme estranee ai sentimenti più scontati, rapide e sfuggenti, proprietarie di una città che non mi è mai appartenuta e che, proprio in quest’istante, ferisce la continuità della mia armonia, con precarietà sempre incombenti, incapaci di raccogliere, di nuovo, la scrittura pronta a scivolare qui sul foglio.
Ormai bloccata.
Sopraffatta dalla griglia di apprensione che ne soffocherebbe la gioia appena evocata: si tratta solo di minuti, ma il tempo è trasformato in massi eterni in cui resta imprigionata quella voce del passato. Un solo fotogramma di reale dissonante, ed ecco che assisto alle macerie di tanta melodia.
Era forse delirio la mia gioia? C’è forse un insospettabile intruso ad abitarmi?
Pina Arfè