Chi uccise lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini la notte tra il primo e il 2 novembre 1975? Cosa avvenne davvero all’Idroscalo di Ostia? Chi c’era, quella notte fatale, con l’intellettuale più amato e odiato d’Italia? Dobbiamo credere alla versione dell’unico incriminato, Pino Pelosi, condannato per “omicidio volontario in concorso con ignoti” a nove anni e sette mesi e al tempo “ragazzo di vita”? Cosa e chi c’è dietro l’omicidio di Pier Paolo Pasolini? A indagare con puntiglio feroce e appassionato amore per la verità c’è Oriana Fallaci, una delle penne più “scomode” e, anche in questo caso, amate e odiate d’Italia e del mondo, nel libro “Pasolini, un uomo scomodo” (Rizzoli, 2015), che raccoglie la sua inchiesta giornalistica sulla morte dell’intellettuale italiano. Oriana e Pier Paolo si conoscevano già dal 1963, erano amici con una forte affinità intellettuale che non risparmiava, però, critiche reciproche e divergenze di pensiero. Proprio a Pasolini, infatti, la Fallaci inviò il suo libro appena pubblicato, “Lettera a un bambino mai nato” (1975) ed ebbe, in cambio, parole dure, sconfortanti, perfino umilianti su quella storia che aveva tirato fuori direttamente dall’anima e dalla realtà che vedeva con i suoi occhi. Oriana, però, capì subito che il rifiuto dello scrittore di andare oltre la seconda pagina della sua opera non era dovuto a una superficiale opinione negativa, non vi era desiderio di stroncare il libro o la stessa autrice, ma un disagio più profondo e intenso: il disgusto della maternità, dell’atto difficile e sporco della nascita, che si tramuta in disprezzo verso la femminilità e il peccato e nel desiderio di espiare quest’ultimo non ascendendo verso la pace e la purezza, bensì sprofondando ancora di più nel fango, nella colpa, alla ricerca di una morte che, purtroppo, non tardò ad arrivare.
Oriana Fallaci aveva intuito tutto ciò, sapeva cosa si nascondesse dietro al viso spigoloso e ai modi gentili di Pasolini e non mancò di ricordarlo, nel capitolo più toccante di “Pasolini, un uomo scomodo”, ovvero “Lettera a Pier Paolo”. Da questa missiva, scritta subito dopo la morte di Pasolini, si dipana l’intero libro e la stessa indagine che la giornalista portò avanti con coraggio, nonostante accuse, invidie, persino un processo e la mancata solidarietà del mondo giornalistico di cui faceva parte. Oriana, infatti, non poteva credere alla versione ufficiale dell’assassinio, non riusciva a pensare che Pier Paolo potesse avere la smania di aggredire, di usare violenza contro un ragazzo. Conosceva la personalità contraddittoria dell’amico, quella sua inconscia e disperata ricerca della fine che, però, non contemplava la malvagità verso il prossimo. Lei stessa lo aveva pregato più volte di non frequentare i luoghi pericolosi dei “ragazzi di vita” e, ogni volta che lo vedeva andar via, alla ricerca di quel peccato tanto detestato, non poteva far a meno di provare una stretta al cuore, di chiedersi se lo avrebbe mai più rivisto. Non c’è, però, solo questo a convincere la Fallaci che l’omicidio non può essersi svolto come raccontava Pino Pelosi: troppi particolari si trovano “fuori posto” in una indagine ufficiale che ha il sapore della ricostruzione frettolosa, negligente. Primo fra tutti il “dettaglio” essenziale che riguarda il numero di aggressori all’Idroscalo di Ostia. Pier Paolo Pasolini si difese, come era logico che fosse e, da uomo atletico qual era, avrebbe potuto sopraffare in poco tempo il giovane Pelosi. Invece il corpo martoriato dello scrittore e la stessa dinamica della morte suggeriscono un’altra verità, più cruda e cattiva a cui, forse, non si volle credere del tutto e che si cercò di insabbiare, almeno parzialmente. Altro particolare: il presunto anello di Pino Pelosi lasciato, per caso o di proposito non si è mai capito, sulla scena del crimine e di cui il ragazzo stesso non ricorda neppure l’incisione (strano ma vero) e che si ostina a voler cercare, benché proprio quell’anello rappresenti la prova in grado di aprirgli le porte della prigione.
Oriana iniziò, così, a indagare per proprio conto, insieme ai giornalisti de “L’Europeo”, il celebre giornale per cui lavorava dal 1951. La sua fu un’inchiesta rischiosissima nel mondo violento, squallido e triste dei “ragazzi di vita” e che portò a conclusioni per nulla lontane dalla realtà, tanto che oggi, alla luce di nuove rivelazioni, si tende a pensare che la morte di Pier Paolo Pasolini fu un assassinio di gruppo, benché restino ancora piuttosto incerte le motivazioni. Il 14 novembre 1975 Oriana Fallaci pubblicò il primo articolo su ciò che, secondo la sua ricerca, avvenne nella notte tra il primo e il 2 novembre: “Ucciso da due motociclisti?”, contenuto nel libro edito da Rizzoli, è una richiesta decisa di giustizia, il dubbio tradotto su carta, la risposta a una serie di quesiti che chiunque si sarebbe posto, analizzando il caso, scoprendo l’ombra di una verità tanto scomoda quanto lo stesso personaggio Pasolini. Con maniacale precisione Oriana Fallaci ricostruì l’accaduto e continuò, nonostante gli ostacoli e le fonti reticenti poiché spaventate e minacciate di morte, a scrivere, dimostrando che non è mai possibile chiudere gli occhi di fronte ai fatti. Il 21 novembre è il momento degli altri due pezzi che compongono il libro, “E’ stato un massacro” e “Il testimone misterioso” in cui la giornalista addirittura riporta le parole esatte della sua sconosciuta fonte, un ragazzo di vita, lasciando inalterato il linguaggio dialettale e fornendo così al lettore la chiave per interpretare una “cultura” sordida, omertosa, sotterranea, fatta di ignoranza e nera povertà, che corre parallela al mondo “normale” in cui viviamo noi, ma che non vediamo (e certe volte non vogliamo vedere), perché sepolta sotto le minacce e la legge del più forte. Pasolini conosceva bene questa dimensione oscura, non aveva paura di percorrerla, ma Oriana Fallaci non lo giudicò mai per le sue scelte.
“Un marxista a New York”, pezzo che risale al 13 ottobre 1966, non a caso apre il libro “Pasolini, un uomo scomodo”; è proprio tra queste righe, infatti, che possiamo cogliere la vera essenza dell’intellettuale che visita New York per la prima volta e se ne innamora, pur rilevandone i difetti più nascosti, dell’uomo che vive di contraddizioni, perché pur amando la bellezza, è irresistibilmente attratto dalla bruttezza, pur elogiando l’erudizione, naufraga nell’inciviltà. La Fallaci riuscì a tratteggiare con grande realismo e uno stile scarno, eppure vivido ai limiti della crudezza, i contorni di una personalità sfuggente, non catalogabile e per questo scomoda, non assimilabile e spesso incompresa e giudicata, quella di Pier Paolo Pasolini. Il tono è quello di una madre protettiva, che conosce punti di forza e fragilità della sua creatura e proprio di queste ultime ha paura, perché sa che saranno causa di infelicità, di eterno attrito tra il desiderio di purezza e il bisogno di ruvidezza presenti nell’amato “figlio”. Pasolini e Fallaci furono, in questo senso, due anime gemelle, due nature che si completavano e su cui si è detto tutto e il contrario di tutto, perché difficilmente gli esseri umani riescono ad accettare di non comprendere razionalmente, di non poter controllare né custodire nel recinto un “gregge” che si pretende di ammaestrare.
Leggendo “Pasolini, un uomo scomodo” abbiamo la sensazione di aver perduto due tasselli centrali del puzzle che compone la cultura italiana prima di tutto, ma anche internazionale. Due personaggi che non dovrebbero essere giudicati e il cui pensiero non dovrebbe essere manipolato o strumentalizzato, come spesso accade. Questa perdita fa ancora più male se pensiamo che molti giovani (non tutti, per carità e spero siano, anzi, sono certa che siano la minoranza) non conoscono Pier Paolo Pasolini. Lasciamo stare l’apprezzamento o meno delle sue opere, questo è già un passo ulteriore, un altro discorso, ma soffermiamoci sulla persona e l’apporto intellettuale. Troppi nuovi figli d’Italia non hanno idea di chi fosse Pasolini e, purtroppo, un libro come “Pasolini, un uomo scomodo”, difficilmente attirerà la loro attenzione (benché in me esista sempre la speranza di sbagliare su tutta la linea), nonostante la penna eccellente della Fallaci e la complessità di uno dei misteri irrisolti del nostro Paese, qualcosa che tutti dovrebbero conoscere almeno nei punti cardine. Fa male immaginare che, forse, stiamo diventando ciò che Oriana Fallaci e Pier Paolo Pasolini temevano, ossia persone senza memoria, senza amore per la bellezza e il passato che tanta grazia (e anche tanto orrore) ci ha regalato. Loro sapevano guardarsi indietro e osservare la realtà con puntiglio, senza maschere e questo libro ne è una prova. Noi siamo ancora capaci di farlo, oppure siamo stati assimilati nel recinto?