La Pace di Lodi, nel 1454, sancì la fine di un lungo periodo di lotte tra i maggiori stati italiani e l’inizio di un quarantennio di pace che permise l’eccezionale fioritura dell’arte rinascimentale lungo tutta la penisola. In particolar modo nelle corti del Centro Italia, culle di Signorie importanti come quella dei Montefeltro ad Urbino che si trasformò in un breve giro d’anni da capoluogo di una regione povera e depressa in una delle maggiori capitali della cultura del tempo. La fortuna di Urbino fu strettamente legata alla figura di Federico da Montefeltro educato ai principi dell’Umanesimo nella Cà Zoiosa di Vittorino da Feltre a Mantova, ove aveva approfondito lo studio della matematica, che in seguito sarebbe divenuto il fattore coesivo della civiltà urbinate ed il principale criterio delle scelte culturali del duca. Testimonianza di ciò è la presenza – nella corte urbinate – di artisti e studiosi caratterizzati da questo indirizzo, come Leon Battista Alberti e Piero della Francesca. E proprio sulla figura di quest’ultimo maestro dell’arte è incentrata la mostra “Piero della Francesca. Indagine su un mito” che si aprirà a Forlì il 13 febbraio, presso i Musei di San Domenico. Tale esposizione – organizzata dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune della cittadina e con la direzione generale di Gianfranco Brunelli – potrà essere visitata sino al 26 giugno.
Figura chiave del Quattrocento italiano, Piero della Francesca partecipò da protagonista alla cultura matematica urbinate, sebbene la sua effettiva permanenza presso la corte marchigiana sia circoscrivibile ad un breve periodo di tempo che va presumibilmente dal 1469 al 1472. Toscano di nascita, Piero compì numerosi viaggi che lo videro soggiornare a Roma, Ferrara e Rimini influenzando così profondamente le successive evoluzioni artistiche nel secondo Quattrocento. La ragione della grande e precoce fortuna della sua arte pittorica risiede nella lucida coerenza del suo mondo figurativo, che accorda visione prospettica e geometria delle forme con uno spiccato senso della figura umana, sempre protagonista nei suoi lavori ed immersa in atmosfere nitide, caratterizzate da un’illuminazione che ha del metafisico per la sua assolutezza. Formatosi nel capoluogo toscano, già dalle prime opere emerge una profonda conoscenza dei lavori del Beato Angelico e di Domenico Veneziano da cui il maestro mutuò lo studio della luce e delle tinte chiare che rendono i suoi dipinti quasi del tutto privi di ombre. Sempre stimolato dall’avanguardistico ambiente fiorentino fu lo studio della prospettiva e della proporzioni di cui Piero della Francesca si servì per conferire quell’atmosfera di estremo rigore formale che caratterizza tutte le sue opere. Di più: fu proprio il maestro a completare l’impianto teorico delle tecniche per la costruzione della prospettiva; consapevole della necessità di riferire la rappresentazione pittorica ad un organico e completo sistema di leggi e procedimenti matematici, Piero compilò in volgare, verosimilmente tra il 1472 ed il 1475, il trattato De Prospectiva Pingendi. La trattazione è qui appunto focalizzata sugli aspetti matematico-geometrici con specifiche applicazioni pratiche dovendo consentire una verosimile traduzione dello spazio attraverso le opportune deformazioni prospettiche avvertite dall’occhio umano.
Opera emblematica a tal proposito è la “Flagellazione di Cristo” (1460 c.a.), capolavoro di equilibrio compositivo fondato sulla proporzione aurea, in cui l’impianto prospettico è rigoroso e descrive uno spazio architettonico classico, scandito dal pavimento lastricato che rende lo spazio perfettamente misurabile, mentre le linee che descrivono la profondità guidano lo sguardo dell’osservatore verso l’episodio principale del racconto. L’interesse per la pittura fiamminga portò poi il maestro ad acquisire una spiccata sensibilità verso la resa dei fenomeni luminosi. Durante il periodo di permanenza alla corte urbinate, dove il duca favoriva particolarmente lo scambio con la cultura delle Fiandre, Piero ebbe modo di approfondire i suoi studi e metterli in pratica, ad esempio, nel “Dittico dei duchi di Urbino”: i volti di Battista Sforza e di Federico da Montefeltro, dai volumi nitidamente definiti da una luce fredda quanto innaturale, si stagliano sullo sfondo di paesaggi minuziosamente descritti fin in lontananza, creando un’immagine di perfezione astratta. Di ascendenza fiamminga è qui anche la volontà del pittore toscano di rendere tangibile la stoffa degli abiti o i preziosi della duchessa. In Piero della Francesca la cura per la resa materica delle cose tocca un livello mai raggiunto fino ad allora; nei suoi lavori luce e ombra contribuiscono alla costruzione di un solido spazio geometrico che produce l’effetto di aumentare la solennità delle figure e delle scene in essi rappresentate. Egli segna dunque con i suoi studi sulla luce e sui principi geometrico-matematici, sotto diversi punti di vista, un punto di riferimento immediato e imprescindibile per gli svolgimenti di tutto il successivo Rinascimento italiano e in particolare per pittori come Antonello da Messina in cui il gusto per la monumentalità si mescola al realismo di ascendenza fiamminga. Nel XX secolo, dopo un periodo di oblio piuttosto lungo, l’opera di Piero della Francesca fu riscoperta e rivalutata proprio perché al suo interno vi si trovano elementi, quali ad esempio la semplificazione geometrica e la disposizione bilanciata degli elementi, che saranno di fondamentale importanza per i futuri sviluppi dell’arte moderna e contemporanea.