Riceviamo e pubblichiamo un racconto della scrittrice Pina Arfè.
R – Si, esatto, fu proprio allora che successe.
D – Che cosa? Quando?
R – Non lo so neanche adesso, ma riconobbi nella nebbia dell’ignoto qualcosa che già mi apparteneva. Sentii nel corpo una strana sensazione che, in contrasto col senso dell intera situazione, mi pervadeva di un vuoto di ‘mancanza’ totale e penetrante, ma senza alcun nome che la potesse connotare, quasi un diabolico piacere un po’ perverso, contraddittorio certamente rispetto alla pena che provavo, tanto che perfino io, che ne testimonio la presenza, ancora oggi non riesco a capire in che cosa consistesse. Mentre ogni cosa di quella situazione rispettava un copione banale e già scontato, all’improvviso mi abbandona ogni speranza futura di esistenza, senza motivo alcuno, come se il graffio antico scritto nel mio occhio rendesse opaco e incerto perfino il mio futuro. Ma il graffio è pure dentro al cuore. Perché? Chi fu, in quell’istante, che volle negarmi l’arbitrio di decidere la vita, la mia vita? Gli occhi vivi, penetranti e interroganti, protesi, con lo sguardo, ad ascoltare ogni cosa fosse detta, mostravano, nascoste da un piccolissimo sipario, cose dolorose, accadute chissà quando, e una goccia della sua mancanza trafisse pure gli occhi miei. Ingannata da altri segni persuasivi, non compresi, allora, l’importanza di quella sensazione.
D – Mancanza? Ma di che? Mi sembra quasi quasi una filosofia alla moda inventata di recente!
R – Solo oggi la parola su indicata si formò nel mio cervello, ma fu prefigurata proprio in quella circostanza.
D – Ma le prove le avete riscontrate? Ce le volete raccontare?
R – Accadde un giorno, come ho detto, ma in maniera inaspettata: i suoi occhi la conficcarono spietatamente nei miei occhi, e caddi giù da un grattacielo che custodiva le certezze di un’esistenza che trascorreva in armonia. Si tratta di un dolore antico che rimane impastato nei visceri segreti, e benché la donna respiri la mancanza allorché il bambino abbandona quel suo corpo pieno già di sconosciuta nostalgia – anche se poi gliela consegna dopo, eredità primaria del suo essere di madre – la mia, parlo di una madre, proprio la mia, un brutto giorno non se ne ricordò. Mi lasciò sola nella vita e senza alcun rimorso. Fu così che la sua eredità mi raggiunse in anteprima: ogni volta che qualcuno o qualcosa la rinnova, ridivento esule di vita e di speranza, in cerca della ‘parola’ redentrice, che, nonostante, in verità, sia talvolta più ambigua della legge, connotando la primaria pulsione del cervello di letale interdizione, concede comunque, qualche volta, un granello di effimera illusione. Quel primo volto assente, mai dimenticato, si ritrova, talvolta, nelle impressioni ricevute da un volto sconosciuto, che, per segni impercettibili a chiunque –un leggero movimento della testa, un sorriso giunto inaspettato, uno sguardo che ti trapassa l’anima nel tempo dell’istante- sembra riportare nel presente una promessa di risarcimento. Ma la vita si ribella e ti strappa dalle mani l’incantatore carismatico sublime Si tratta, lo so bene, di un transfert molto elementare, che induce ad amare con passione chi riesce ad accecare la ragione con un bagliore di fantasmatica salvezza. Anche lui possedeva qualche mancanza vergognosa e, non so se accadesse che, in me riconoscendo quella vasca di dolore nel groviglio della mia corporeità, fossi stata io a proiettarla su di lui o, al contrario, se da lui l’avessi ricevuta, oggi so soltanto che la tela di Penelope si tramutò nel filo teso, tra due nuvole di luce, da un azzardato giocoliere che, imbarazzato alla vista della gente, chiede, al cielo che lo sta ospitando, di assecondare il suo traballamento.
D – Ma insomma, parlate con chiarezza e ponete nel cassetto le allettanti metafore dell’arte della mente.
R – Quando mi confesso davanti alla verità riflessa nello specchio, entro nel cunicolo più stretto che ci sia. Buio assordante di gemiti emessi dal mio corpo strisciante le strettoie. Mentre il dolore m’incassa in una tomba che mi fa paura, avanzo martellandomi la testa di colpi di dolore intermittenti ritmicamente organizzati, respirando l’aliena divergenza di tutta un’esistenza, condannando l’imbarazzante trasparenza del sentire, chiedendo piccole elemosine elargite con pietà perfino al più bastardo di tutti i richiedenti: soltanto breve pausa all’obbligante gioco della vita, quasi a diventare, io e lui, due frammenti di una sola immagine bloccata sul supporto – solitario elemento di realtà dell’arte ingannatrice – liberi fantasmi esonerati dall’essere nel mondo. Se fossi un’orma, qualcuno pur mi avrebbe calpestata. Ma chi condanna al nulla, sottrae speranza al tempo di una vita. Vivere è forse quel cercare il nulla che ci precede, ombra leggera di stravaganti desideri in cerca di una fredda pietà infinita, ricerca di una spiaggia verticale per ritrovar l’infanzia?
PINA ARFÈ