SIMONA GHIZZONI: «STORIE E VOLTI CHE MI HANNO CAMBIATO LA VITA»

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Macchina fotografica al collo e tanta passione per il mondo e le storie che ha da raccontare. Questa è Simona Ghizzoni, di professione fotografa, che a inizio 2012 ha conquistato il terzo premio nella categoria “Contemporary Issues” del World Press Photo con un’immagine scattata nella Striscia di Gaza. La foto è cruda nella sua semplicità. Una donna completamente velata, di cui si intravedono soltanto gli occhi, siede al centro di una stanza scarna, arredata solo da un lettino. Jamila ha 40 anni e si regge a un bastone a causa dell’invalidità che l’affligge da quando, nel 2009, una bomba l’ha colpita alle gambe. A raccontarci la storia della donna e la sofferenza che c’è dietro la foto è la stessa Simona Ghizzoni.

«Jamila è una delle donne che ho incontrato nei tre mesi in cui ho vissuto nella Striscia di Gaza e sebbene l’immagine abbia vinto come foto singola, io non riesco a separare  la sua storia da quella di tutte le altre donne che ho conosciuto e che compongono un coro di sofferenza dimessa, quotidiana, senza urla, che affrontano lutti e dolori nel loro privato, lontano dal chiasso dei media. Jamila è nata 40 anni fa, nella guerra  ci è nata e cresciuta, si è sposata, ha dato alla luce tre figli. E’ una donna all’antica, di quello spirito semplice che mi ricorda la generazione dei miei nonni, poche pretese, molto lavoro, dedizione alla famiglia. Durante l’operazione Piombo Fuso nel gennaio 2009 è stata colpita dalle schegge di un missile mentre tornava a casa coi suoi figli a prendere beni di prima necessità. Le ferite alle gambe erano talmente gravi che i medici volevano amputare, lei si rifiutò. Dopo la fine della guerra subì  molti interventi, ma la sua salute era già troppo compromessa. Jamila soffre la sua invalidità, mi dice di essere una donna a metà: Io  dovrei prendermi cura dei miei figli, non loro di me».

Com’è nata la sua passione per la fotografia?

L’interesse per la fotografia nasce assieme al mio interesse per le arti, nella biblioteca Comunale di Reggio Emilia, dove c’era un’ampia sezione di libri d’arte e fotografia, che sfogliavo nelle pause dallo studio, durante il liceo e soprattutto negli anni dell’università. Ricordo che prendevo in prestito i libri della Arbus o di Robert Frank e fotocopiavo le immagini che mi piacevano di più, per poterle vedere sempre. Già da allora amavo viaggiare da sola, anche se chiaramente potevo farlo soltanto durante le vacanze e non potevo spostarmi troppo lontano, ma  ovunque andassi cercavo di trovare musei e gallerie d’arte o di fotografia. Scrivevo molto di ciò che vedevo e incontravo. Allora credo si trattasse semplicemente di un modo di esplorare la vita, una curiosità, non pensavo certo che potesse diventare il mestiere e l’amore di una vita.

Nel corso della sua carriera si è dedicata principalmente alla sofferenza delle donne. Perché questa scelta?

Mi fanno spesso questa domanda e non sono certa di aver trovato ancora una risposta soddisfacente. Come in ogni cosa, all’inizio il caso, o il destino, ci ha messo lo zampino. Ho iniziato tardi a lavorare, avevo 29 anni, così ho pensato di fare una serie di ritratti di amiche e conoscenti che stavano per diventare trentenni, un’esplorazione, una specie di sondaggio… su cosa significasse diventare adulte. Quel lavoro corrispondeva ancora a una fase della mia vita in cui la fotografia, al pari della scrittura, mi serviva come strumento per indagare la mia vita e le mie difficoltà. Il passo successivo è stato iniziare il mio primo progetto a lungo termine, Odd Days, sui disturbi del comportamento alimentare. Durante quel lavoro ho iniziato a capire perché ero così attratta, quasi ossessionata, dal fotografare le donne. La violenza e la sofferenza sono universali, il mio è un modo di declinare queste tematiche attraverso uno sguardo femminile, che è prima di tutto il mio,  assieme a quello delle donne con cui entro in relazione durante il lavoro.

Con il progetto “Afterdark” ha indagato le conseguenze della guerra sulle donne. Cosa accade nelle loro vite durante e dopo i conflitti?

La guerra delle donne non è quella mediatica che siamo abituati a vedere. Non è la prima linea, non è quella che “fa la storia”. E’ una sofferenza privata, fatta di paure per sé e soprattutto per i propri cari, è qualcosa di subito e raramente agito. Le donne restano a casa, aspettano nell’angoscia, preparano il cibo e quando il peggio è passato, spetta a loro rimettere assieme i pezzi, avere cura dei bambini, dare loro fiducia nel futuro nonostante tutto, molto banalmente… aiutarli nei compiti, consolarli la notte se si svegliano urlando e facendo pipì nel letto come spesso accade ai bambini che hanno visto un conflitto. Tocca a loro accudire i feriti, ricreare una casa che spesso non c’è più nulla, con quel poco che rimane, andare avanti, anche quando, come ho visto molte volte, avrebbero bisogno loro stesse di essere accudite e consolate.

Tra i suoi numerosi viaggi nella sofferenza umana, da Sarajevo al Nord Africa al Medioriente, qual è il posto o l’episodio che le è rimasto maggiormente impresso e perché?

Non credo ci sia un episodio particolare, se richiamo alla mente i viaggi fatti… beh non c’è luogo in cui non mi vengano in mente volti e storie che non mi abbiano in qualche modo segnato e cambiato. Forse posso solo raccontare di una vicenda personale, a cui penso spesso. A Gaza collaboravo con un giornalista del luogo, il caro Sami, che mi scarrozzava in giro, mi portava a mangiare i migliori shawarma ridendo perché diventavo rossa in faccia per il piccante, mi telefonava la sera se iniziavano dei bombardamenti particolarmente violenti chiedendomi se avevo paura e se doveva venire da me. Più che un fixer io gli dicevo che era il mio baby sitter, lui rideva. Quei due mesi sembravano non finire mai e invece è arrivato il giorno del mio volo. La mattina Sami mi ha accompagnato al valico di  Erez, (per chi non lo sapesse, per uscire da Gaza ed entrare in Israele c’è un enorme checkpoint militare, composto da vari tornelli, un eterno corridoio circondato da sbarre da cui poi si accede al “terminal” dove vengono effettuati i controlli dei bagagli, il body scanner, eccetera eccetera). C’è un omino che vende caffè prima del tornello. Faccio il primo controllo passaporto, prendiamo un caffè, mi siedo sulle valigie e continuiamo a chiacchierare di sciocchezze. Nessuno dei due riesce ad affrontare i saluti. Poi la polizia mi esorta ad andare, è un posto militare non un caffè dove fare chiacchiere. Abbiamo finto col groppo in gola che stessi andando via per poco, scherzando e dandoci gran pacche sulle spalle, ho attraversato il tornello, gli ho sorriso  e mi sono girata appena in tempo per non strozzarmi di singhiozzi. La violenza dell’embargo di questo popolo mi è arrivata addosso come una marea. Perché dopo non è più “un popolo”, è il tuo amico Sami, la tua amica Ebaa, Mohammed, Munir, il venditore di sigarette all’angolo e quello dell’alimentari con l’aria sempre incazzata, i camerieri del Beach Hotel con la connessione internet più lenta della storia, e così via.

Tornando indietro di qualche anno, nel 2008 ha vinto il suo primo Word Press Photo nella categoria “Ritratti” per la fotografia di una ragazza anoressica. Quale aspetto del problema voleva raccontare?

Il lavoro sui disturbi alimentari (non solo anoressia) è stato il primo progetto a lungo termine, e il primo in cui ho avuto a che fare in maniera personale ed intima con persone che non conoscevo. Sembra una sciocchezza e invece ricordo perfettamente l’imbarazzo del primo incontro con le ragazze che sarebbero poi diventate protagoniste del progetto e in alcuni casi, amiche. Di disturbi alimentari si parla spesso e spesso a vanvera. Questo lo posso dire con certezza perché ne ho sofferto per molti anni, nell’adolescenza. La questione che davvero mi innervosiva era il fatto che il problema venisse trattato come un capriccio, soprattutto qualche anno fa. Chiariamolo subito. Una ragazza (o un ragazzo) che si ammala di disturbi del comportamento alimentare, non vuole essere magra per essere bella “come le modelle della pubblicità”. Vuole essere vista. E’ un grido: Non vedete che sto male? Ora ve lo spiego meglio. Modificherò il mio corpo finché non ve ne renderete conto, così poi sarete costretti a vederlo. Il disturbo alimentare parte da una sofferenza psicologica e si manifesta nel corpo, non il contrario. Per questo il lavoro si è sviluppato in una serie di ritratti che non indulgono sui corpi, se non in rari casi, ma si concentrano sulla solitudine, sulla sofferenza dello sguardo, sull’isolamento che comporta questo tipo di disturbo.

Progetti per il futuro? Quale sarà il prossimo viaggio?

Sto lavorando all’organizzazione di alcuni progetti, nuovamente in Medio Oriente e Nord Africa per i prossimi mesi, ma non posso dire molto di più! Le fasi preliminari sono una parte molto complessa e delicata, anche per le persone coinvolte. Nell’attesa, sto tenendo una specie di “diario romano”, mi dedico alla ricerca di fondi per il documentario girato assieme alla mia cara amica e collega Emanuela Zuccalà sulle donne Saharawi, Just To Let You Know That I’m Alive, in crowdfunding su Emphas.is e attendo con emozione l’uscita al Festival del Cinema di Roma del film “Tutto parla di te” di Alina Marazzi al quale ho collaborato.

Piera Vincenti

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