Non si può recensire ‘Lo faccio per me’, il libro della psicologa Stefania Andreoli, senza fare la premessa che segue. Partiamo dal presupposto che nell’ambito della mistica delle femminilità esiste una mistica della maternità. Si tratta di un’idea o meglio di un ideale che si è diffuso in seno al patriarcato per mantenere lo status quo e consentire agli uomini di poter lavorare senza distrazioni.
La madre accudiva i figli e si prendeva cura della casa; il padre guadagnava per poter mantenere moglie e prole garantendo alla nostra specie continuità e soprattutto il passaggio della proprietà ai discendenti legittimi. Nel mondo contadino le dinamiche erano ancora più complesse perché, oltre prendersi cura della prole, dei mariti e della casa, le donne dovevano lavorare attivamente nei campi.
In questo modo la società funzionava ma le donne erano costrette a trovare la propria dimensione solo nell’ambito delle mura domestiche dove potevano esprimersi nella cura e nella maternità. Ogni altro talento femminile veniva castrato sul nascere con un’educazione specifica che consisteva in una sorta di lavaggio inconsapevole del cervello delle bambine, le quali erano addestrate alla cura e alla gentilezza; l’intelletto delle donne non era valorizzato, anzi era svilito, vilipeso, mortificato. Mantenere le figlie femmine nell’ignoranza, impedendole di studiare e poter essere indipendenti, era una necessità. Lo studio sarebbe stato un fertilizzante per la mente femminile e quindi era ritenuto molto pericoloso per lo status quo.
Nascono da questo modello sociale tutte le idee sulle donne, comprese le convinzioni sulla sessualità femminile. Mantenere le femmine caste fino al matrimonio – che era per lo più un contratto e diventava una gabbia per le mogli – era doveroso perché il patriarca doveva esercitare il proprio potere sulla prole affinché si scongiurasse il passaggio di proprietà a figli illegittimi. Tutto ruotava intorno alla proprietà privata che apparteneva al patriarca, il quale possedeva anche donne e bambini. Anche la religione di conseguenza serviva a mantenere questo stato di cose, ricordate i sermoni del prete misogino nel film Chocolat (2000)?
Le cose sono cominciate a cambiare, seppur molto lentamente, con la prima e soprattutto con la seconda rivoluzione industriale che hanno dato la motivazione alle donne (sempre più impegnate come operaie) di battersi per i loro diritti. Il Femminismo ha fatto tanto: oltre a garantire il diritto al voto, il movimento ha permesso alle donne di essere indipendenti in primis emotivamente. Ma la strada ancora oggi è lunga e tortuosa anche in Occidente, dove le convinzioni sulle donne sono dure a morire.
In questo ragionamento si inserisce molto bene il libro ‘Lo faccio per me’ di Stefania Andreoli. L’autrice – che è molto attiva sui social, soprattutto su Instagram – nel suo volume si occupa di maternità con uno sguardo lungimirante e innovativo partendo dal presupposto che le donne sono ancora ingabbiate nei ruoli di cura e, ogni qualvolta vogliono realizzare qualcosa che sia davvero per loro stesse, vengono accusate di egoismo soprattutto se sono mamme. Andreoli ci suggerisce che l’egoismo in sé non esiste, è piuttosto una trovata, un luogo comune.
L’autrice propone dunque un altro volto della maternità, più autentico e in linea con la complessità dell’essere umano. Scrive quindi di una “mamma persona, una mamma individuo, una mamma unica al mondo”. Una madre che “sa che la funzione materna è, sopra di tutto, portata a compimento nella protezione”. Che cosa significhi questo concetto Andreoli ce lo spiega quando scrive che la mamma garantisce la sopravvivenza del piccolo tramite il cibo, il riparo e l’igiene. Ma non si ferma a questo perché la madre garantisce l’individuazione ovvero l’alterità: il piccolo diventa gradualmente individuo, anzi nasce come soggetto a sé anche se dipende dalla mamma che è garante della salute fisica e psichica (nel caso della salute psicofisica parliamo ovviamente dell’infanzia e dell’adolescenza, non dei trentenni).
La mamma individuo, anche nei primi tre anni di vita del bambino, si accorge quando ha la necessità di essere sostituita e permette al padre di esercitare con consapevolezza il suo ruolo genitoriale anche di cura. La psicologa Stefania Andreoli nel suo libro descrive per grandi linee il percorso evolutivo della mamma nell’ambito delle varie fasi di crescita del figlio e della figlia, dalla primissima infanzia arrivando all’adolescenza e alle soglie della vita adulta, dove i figli (diventati giovani uomini e donne) devono aver sviluppato indipendenza emotiva.
Secondo l’autrice, una mamma che castra e annichilisce, impendendo al figlio e alla figlia nelle varie fasi dello sviluppo (dall’infanzia alle soglie della vita adulta; molte madri si spingono anche più in là) di fare esperienza, è una madre che a sua volta si è castrata nei bisogni e negli interessi. Vale, quindi, davvero la pena di leggere questo libro, nel quale la psicologa scrive della necessità di essere mamme senza perdere la donna e di conseguenza la persona occupandosi al contempo delle varie sfumature del femminile con un occhio attento e mai giudicante. La recensione è stata scritta da Maria Ianniciello
PER APPROFONDIRE
- IL LIBRO SUL FEMMINISMO (Lo trovi qui)
- TULLY, IL FILM (Recensione qui)
- Buona notte per bambine ribelli (Lo trovi qui)
- Dalla parte delle bambine (Lo trovi qui)
- Il podcast di Natalia Levinte
- Ancora dalla parte delle bambine (Lo trovi qui)
- La rabbia delle mamme (Lo trovi qui)