Il destino di ognuno di noi può mutare in un secondo e lasciarci, poi, tutta una vita da percorrere per chiudere i conti col passato e abbracciare, finalmente liberi, il futuro. Questo è l’insegnamento del libro “Una mattina d’ottobre” di Virginia Baily (ed. Nord). Abbiamo sentito parlare così tante volte del potere di un solo attimo nella vita di un individuo, delle conseguenze a cui può portare questo minuscolo frammento di tempo (in positivo o in negativo), eppure facciamo fatica a credere fino in fondo che le nostre vite possano dipendere da un misero, relativo attimo. Del resto siamo abituati alla quotidianità relativamente stabile e serena dei nostri giorni; spesso, quelle che crediamo “tempeste” della vita sono piogge, magari un po’ più forti di quelle a cui siamo abituati, ma pur sempre pioggerelle destinate a finire in poco tempo. Crediamo che ogni cambiamento richieda un determinato tempo e questo, in una certa misura, è vero. Esistono, però, delle evoluzioni della vita repentine, inaspettate, sorprendenti sia nel bene che nel male. Tali trasformazioni accadono con una certa frequenza nei momenti in cui la Storia sembra fermarsi su tragici eventi, su drammi che pare non debbano mai avere fine. Una di quelle tragedie fu la Shoah: noi, uomini e donne di oggi, non possiamo nemmeno immaginare cosa devono aver patito gli ebrei torturati, massacrati di lavoro nei campi di concentramento, strappati alle loro famiglie e alla loro quotidianità da un momento all’altro, dalla sera alla mattina. Leggiamo i libri, guardiamo i documentari, visitiamo i musei, eppure tra noi e la vera comprensione di questa persecuzione c’è il muro del corpo, dell’esperienza fisica e psicologica che a noi, chissà perché, per quale gioco del destino, è stata risparmiata. I cambiamenti repentini non sono rappresentati dalla Shoah, poiché questa non fu il bagliore di un momento, la fiamma che in poco tempo brucia tutto ciò su cui passa. Fu, invece, alla stregua di un’onda lenta, che ingigantiva di secolo in secolo, travolgendo e distruggendo. Fu la paura del diverso, la malvagità che diventa ideale perverso, il sadismo di menti malate, ma che non sono certo meno colpevoli a causa delle loro devianze.
La trasformazione immediata è, invece, quella dell’ebreo che, da un giorno all’altro, non ha più lavoro, né diritti, né una casa; è quella dei ragazzini che, andando a scuola come ogni giorno, trovano le porte sbarrate e qualcuno ad avvertirli che non hanno più la possibilità di studiare, di formarsi come persone, perché sono ebrei e tutti sanno che gli ebrei non sono esseri umani. Il cambiamento immediato, deciso dal destino o chissà da chi, è negli occhi spauriti di un bambino fatto salire su un camion, diretto a chissà quale campo di concentramento o di sterminio, insieme a tutta la famiglia. Un fatto del genere potrebbe essere avvenuto in qualunque città d’Europa, magari a Roma, il 16 ottobre 1943, nel ghetto ebraico così pieno di storia, cultura e tradizione, che possiamo addirittura respirarle a ogni angolo di strada ancora oggi. Quella mattina è bastato uno sguardo tra una madre ebrea che deve nascondere la disperazione per non spaventare i figli, una madre consapevole della morte che attende lei e tutti i suoi cari e una donna sconosciuta, Chiara, intenta o osservare il rastrellamento degli ebrei per caso, quasi stordita dal terrore che langue nel suo cuore. Un solo lungo sguardo materno in cui sono racchiusi la speranza di salvare almeno uno dei figli, il più grande e il dolore di dover scegliere quale vivrà e quali moriranno. E’ contro natura chiedere a una madre una cosa del genere, costringerla a frugare con gli occhi tra la folla, per cercare chi possa, forse, crescere il suo bambino con amore o, almeno, con metà dell’amore con cui è stato allevato fino a quel momento. Eppure questa è la potenza di un attimo, di un frammento di una vicenda individuale in cui è racchiusa la Storia del mondo durante la Seconda Guerra Mondiale. Chiara, la protagonista del romanzo, ha percepito su di sé l’attenzione di quegli occhi imploranti, ma invece di far finta di nulla, comportamento che, in quella situazione, molti avrebbero seguito senza rimpianti, si è messa a gridare che il bambino non poteva essere portato via, poiché si tratta di suo nipote, non di un ebreo. I soldati tedeschi ci credono, i curiosi riuniti lì intorno danno man forte alla bugia di Chiara e così il bambino, Daniele Levi, si salva, affidato alle cure di quella giovane sconosciuta, di diversa religione, che decide di crescerlo come fosse figlio suo, benché preda di insicurezza e angoscia.
Così inizia l’emozionante romanzo “Una mattina d’ottobre” di Virginia Baily. In un attimo la vita del piccolo Daniele cambia, a cominciare dal suo cognome “troppo riconoscibile”. Il bambino diventa uomo, ma in lui la lacerazione del distacco è una ferita che non può rimarginarsi, lasciandolo solo con se stesso benché, di fatto, sia stato accolto in una nuova famiglia, senza guida anche se, in realtà, la mano di Chiara è pronta a sostenerlo. Daniele, in un certo senso, rivive ogni giorno il trauma dell’abbandono di quella mattina d’ottobre e una volta adulto, reiterando l’evento che lo aveva sconvolto, scappa via, lasciando Chiara a districarsi tra dubbi e sensi di colpa. Il tempo della riflessione sul passato termina quando una ragazza si presenta a Chiara rivelando, verità che sembra assurda, sconcertante, di essere la figlia di Daniele. Come è possibile? Quando il bambino impaurito divenuto un uomo ha deciso di mettere al mondo un figlio? A quel punto Chiara deve affrontare il passato, tornare con la memoria a quel giorno di ottobre in cui troppe esistenze sono state stravolte e i cui fili il destino ha voluto tessere e annodare in modo inaspettato, creando una trama complicata, che in apparenza non ha una base logica. Se Chiara riuscirà a dipanare il groviglio di fatti, sentimenti, rimorsi e rimpianti, allora ritroverà se stessa, capirà il senso della sua vita, riuscendo a collegare le sue due anime, quella che ha vissuto la guerra e quella, più moderna, della donna realizzata ma ancora in lotta con se stessa. Solo così ritroverà Daniele e il loro futuro potrà cambiare ancora, stavolta più lentamente, ma in modo più stabile. “Una mattina d’ottobre” è un romanzo toccante, “bello”; (non a caso uso questo termine che può apparire generico) la storia che abbiamo il privilegio di leggere possiede la bellezza estetica di una scrittura ricercata ma scorrevole e quella più profonda di una storia che ci fa pensare a quanto possano essere tortuose le strade che ci portano da un giorno all’altro (e che noi crediamo siano lineari). Non è la prima volta che capita un romanzo con questa particolare caratteristica, benché non siano molti i libri moderni di questo tipo (fanno eccezione i classici, perché in quel caso il discorso è un po’ diverso, anche più ampio, soprattutto quando facciamo il confronto tra differenti stili e in base all’epoca in cui quei libri sono stati scritti).
In più Virginia Baily, con “Una mattina d’ottobre”, dimostra di possedere la qualità dell’equilibrio tra descrizioni e dialoghi. In questo romanzo, infatti, ci sono molte descrizioni di ambienti, personaggi e sensazioni, ma non sono mai un virtuosismo fine a se stesso, bensì una “fotografia” di parole che deve immortalare un preciso momento. Questa immagine non è sfocata, né eccessivamente focalizzata sui dettagli, bensì un ritratto che prima guardiamo nel suo insieme e poi osserviamo da diversi punti di vista scelti accuratamente dall’autrice (la cui “voce” non è mai invadente) per raccontarci la storia in modo da toccare le corde dell’animo e della mente. I dialoghi, invece, sono spesso brevi e incalzanti, usati nel momento in cui i personaggi devono comunicare, poiché per esprimere se stessi contano un po’ di più i gesti, le espressioni, perfino l’ambiente in cui si muovono. Virginia Baily ha costruito un romanzo in cui l’aspettativa, il desiderio non sono quasi mai come l’inconscio li ha progettati e immaginati. Il ritmo non è veloce, ci dobbiamo soffermare tanto sulla narrazione, quanto sulle suddette descrizioni per assaporare i singoli istanti e darci il tempo di riflettere su una pagina storica che ha segnato direttamente moltissime persone e la cui ombra si allunga persino alle generazioni successive. La scrittrice, tra l’altro, ha vissuto a Roma e la sua conoscenza della lingua e dello stile di vita italiani si rispecchia nei suoi personaggi. “Una mattina d’ottobre” merita il massimo dei voti e rappresenta la speranza che si scrivano sempre più romanzi di tale livello, che costringono a fermarsi, anche a volgere lo sguardo al passato per capire davvero l’importanza del nostro presente (talvolta maltrattato) e del nostro futuro (talvolta incerto).