A volte mi chiedo come mai certi film, nonostante i buoni propositi, per un motivo o per un altro, sono costretta a non vederli quando escono nelle sale o anche quando vanno in onda in TV. Capita sempre qualcosa che ne rimanda la visione. A dir la verità mi succede pure con i libri. Ho un’idea poetica e in qualche modo filosofica del motivo per cui ciò accade. Penso che il discepolo arrivi quando il maestro è pronto; nel senso che tutto capita quando deve capitare. Fatalistico o non fatalistico è ciò che penso. Tully è uno di quei film.
Ho fatto di tutto per vederlo in gravidanza, perché il tema mi interessava da vicino e volevo capire come Jason Reitman in Tully avesse affrontato la delicata tematica della depressione post parto. A dirla tutta la pellicola è uscita nelle sale nel momento meno propizio e redditizio per il cinema in Italia, ovvero l’estate; di conseguenza ha avuto poco successo. La distribuzione è stata pessima almeno al Sud e in certe province il film è stato proiettato per qualche giorno ma soltanto in alcuni circuiti.
E fa specie, perché il tema al centro del film Tully viene affrontato nella nostra società allo stesso modo, cioè sottovoce. Proprio come quelle trasmissione televisive culturali, che vanno in onda di notte, quando il grande pubblico dorme e solo qualche insonne, facendo zapping, contribuisce in qualche modo a mantenerle in vita. L’idea della maternità è patinata, retrograda e richiama alla mente le pubblicità delle merendine degli anni Ottanta e Novanta, dove la mamma sempre pettinata, in forma e gentile rendeva la vita della sua famigliola confortevole.
Jason Reitman lo sa e quindi ha fatto un’operazione geniale in Tully affidandosi alla talentuosa Charlize Theron, che ingrassata di ben 23 chili si mostra all’altezza del ruolo dando incisività ad un personaggio ben costruito. Il regista ha affrontato l’argomento sussurrando e alla sua maniera: coniugando dramma e commedia. Tutto viene reso credibile, dall’uso del tiralatte alle scenate isteriche della povera protagonista che, con tre figli e un marito del tutto assente, deve barcamenarsi per far quadrare ogni cosa in una casa sudicia. La stanchezza è del tutto evidente sul volto di Marlo che decide di affidarsi a una tata notturna su consiglio del fratello benestante.
La veridicità è dunque l’asse portante di Tully: la scena in cui Marlo seduta sul water dell’ospedale – dopo aver partorito la sua terzogenita – viene intimata a fare la pipì (altrimenti avrebbe di nuovo dovuto mettere il catetere) da una infermiera di colore è di una lucidità disarmante. Come del resto la sequenza della pizza surgelata. Quante si sono trovate in queste situazioni? Marlo dunque è una di noi, una mamma della porta accanto. La protagonista non ha rinunciato tanto ai sogni di donna in carriera quanto ai bisogni primari e ai suoi desideri di madre.
In Tully niente viene banalizzato e, quando la tata notturna compare, tutto acquisisce un sapore magico per la protagonista che si ricorda chi era e di cosa ha davvero bisogno. Puoi non pulire la casa. Non fare tutto alla perfezione. Non è necessario. Ma una cosa è certa: le cellule del bambino resteranno nel tuo corpo per molti anni e quella simbiosi che si viene a creare con tuo figlio è unica, magica, ancestrale ed irripetibile. Godersi i momenti attimo per attimo. Istante per istante. Un passo per volta. Percepire il corpicino del bambino sul tuo, sentirlo parte di te vivendo tutto appieno è la ricetta per stare bene. E… poi delegare… senza aver timore di chiedere aiuto mettendo a tacere i sensi di colpa. Tully tutto questo (molto altro per la verità) ce lo ricorda bene con un colpo di scena in un finale agrodolce. Da vedere. Ah dimenticavo… io l’ho visto su Sky Prima Fila, finalmente. Quattro stelle. **** (recensione di Maria Ianniciello)