Prima c’è Woody Allen e poi c’è il cinema, perché senza Allen la settima arte non sarebbe la stessa. Prendete per esempio il suo nuovo film Café Society e provate, con me, ad accostarvi all’opera andando oltre una storia forse comune, anche banale se vogliamo, e concentriamoci sulle sfumature della commedia, in cui genio ed estro si fondono grazie alla straordinaria capacità del regista di Scoop di scandagliare gli animi umani con il classico cinismo, delineando tipi e fototipi storpiati, vittime della caducità dell’esistenza che in questo film, molto più filosofico di altri, diventano ancora di più maschere in balia di un giocoliere che si diverte anche in questo caso a rimescolare le carte. Woody Allen, difatti, come sempre, gioca con gli equilibri psichici dei personaggi, rendendoli inermi e incapaci di fronte agli scherzi della vita ma anche un po’ leggeri e sagaci. Il lato tragicomico, molto presente nel cinema del regista statunitense, è in Café Society ancor più accentuato tanto che non riusciamo a capire dove finisce la tragedia e dove comincia la commedia. Il campo d’azione è ben definito ma il tempo è incerto se non fosse per alcuni riferimenti precisi. Gli spazi sono riconoscibili e le epoche si mescolano, i dialoghi sono sublimi. Ma procediamo per ordine.
La voce narrante in Café Society è di Woody Allen che ci narra una vicenda d’amore e di tradimenti. Lo star system, prima un’eccellente via di fuga, si trasforma in una sorta di prigione dorata, sempre con leggerezza e senza forzature. Il personaggio principale è un ragazzotto con la faccia pulita e un po’ di ambizione. Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) – questo il suo nome – lascia New York per recarsi a Hollywood dallo zio Phil, il Paperone della famiglia, magnate della cinematografia e agente delle star. Qui, però, incontra Bonnie, sapientemente interpretata da Kristen Steward, e se ne innamora, però la ragazza lo lascia quando le cose si fanno più interessanti per lui. Il film chiaramente autobiografico ci conduce a New York, la città natia del protagonista, il quale comincia a lavorare al Café Society, club alla moda gestito dal fratello Ben, un gangster. Woody Allen trascina lo spettatore in vari ambiti e situazioni, dalla famiglia ebraica agli ambienti frequentati dalla società altolocata della Grande Mela, ponendosi così alcune domande sul senso della vita e sulla morte. La risposta assoluta non c’è perché niente è definitivo, niente è per sempre.
Tutto muta e tutto può accadere nei film di Woody Allen. Café Society non è il suo miglior lungometraggio, è tuttavia una commedia intrisa di bellezza e di magia, con le atmosfere retrò e le dissolvenze a tendina, con la musica e i costumi che rievocano altre epoche. E poi c’è il fascino di una meravigliosa Blake Lively che, nei panni della moglie di Bobby, dona ancor più glamour a una pellicola non eccellente per la trama ma sicuramente brillante per lo stile e per gli interrogativi. Allen, pur ripetendosi, infatti, sa affrontare gli stessi temi in chiave nuova e diversa, stupendoci di volta in volta perché dopotutto, complici anche opere come Match Point e Irrational Man, non si sa mai cosa aspettarsi dal regista newyorkese, che descrive i suoi personaggi con sadico e lucido disincanto, come aveva fatto magistralmente pure in Blue Jasmine. Di seguito un’immagine di Café Society e il trailer.