Il concerto dei Mumford and Sons: emozioni romane

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Non è facile commentare il concerto dei Mumford and Sons di ieri sera al Rock in Roma. Mentre uscivo dall’Ippodromo delle Capannelle, la sensazione più forte e più superficiale era infatti quella di aver assistito a due live differenti: uno del gruppo che in pochi anni è riuscito ad imporsi nel panorama musicale internazionale attraverso un suono vecchio quanto il mondo e nuovo allo stesso tempo; attraverso il talento di quattro polistrumentisti incredibili che grazie alla padronanza con cui maneggiano i loro “arnesi” creano un folk rock quasi orchestrale, unico nel suo genere. Sono quattro, ma mentre suonano sul quel palco sembrano essere ventiquattro e soprattutto, hanno un’identità forte, diversa da tutto e da tutti. L’altro, il secondo concerto, invece è quello della band di “Wilder Mind”, ultimo album pubblicato lo scorso maggio, un quartetto che è riuscito a creare pezzi di qualità e mira a rivaleggiare con il sound tipico di gruppi come Coldplay, U2, Arcade Fire e con tutti coloro che hanno fatto dell’eleganza e della contemporaneità il loro marchio di fabbrica. Sono diventati “elettrici”, sono diventati modernissimi, ma forse hanno lasciato per strada un po’ di quella unicità che aveva permesso ai Mumford di esplodere e di farsi amare dai fan. Diciamoci la verità “Sigh No More” prima e “Babel” poi sono due perle, due gioiellini degni di figurare nella nostra collezione di vinili (o almeno nella mia) a fianco dei più grandi. “Wilder Mind” è qualcosa di completamente diverso e nel corso di questo concerto la differenza tra i vecchi e i nuovi Mumford & Sons è stata più palese che mai. I vecchi hanno fatto ballare tutti, dal primo all’ultimo avventore di Capannelle (finalmente pieno e bellissimo), trasformando per una sera Roma nella Nashville di Bob Dylan, dove i tacchi degli stivali del pubblico hanno accompagnato il ritmo dettato dal banjo e dal contrabbasso. I nuovi Mumford, comunque ben accolti dai presenti nonostante la svolta elettrica del nuovo album abbia fatto storcere il naso a parecchie orecchie sensibili, sono riconoscibilissimi. Basta osservare i momenti in cui Marcus prende in mano la chitarra elettrica e l’ormai celeberrimo banjo tace per lasciare spazio al rock “sintentizzato”del nuovo disco. Si torna all’inizio di questo report, due concerti differenti: uno con banjo e contrabbasso, uno con batteria e chitarra elettrica. Nella Capitale Marcus, Ted, Ben e Winston decidono di partire con Hot Gates, ultimo singolo tratto da “Wilder Mind”. La voce calda e graffiante del cantante inglese risuona nel buio, riscaldando un’atmosfera già resa soffocante dall’afa estiva di Roma. Una canzone che nonostante il radicale cambiamento, possiede ancora lo stile Mumford: parte piano, dolcemente, cullando il pubblico grazie alla perfetta amalgama di prima e seconda voce, per poi crescere di nota in nota fino all’esplosione finale. Stavolta però, a cambiare marcia sono il charleston della batteria e il suono elettrico delle due chitarre. Il timore dei presenti di non riuscire ad ascoltare le hits più amate del “passato” viene dissipato nel momento in cui Ted Dwane si avvicina al contrabbasso. Marcus Mumford dà uno sguardo al collega e sorride, poi si rivolge al pubblico con un imperativo che suona come musica: “Ballate!”. Parte I Will Wait e l’Ippodromo delle Capannelle esplode in un urlo festoso. Le mani rivolte al cielo accompagnano la chitarra acustica, le scarpe che battono sul terreno dettano il ritmo insieme al banjo di Winston Marshall, la voce del cantante si fonde con quella del pubblico che intona ogni parola eseguendo i suoi ordini. Si continua con lo stesso entusiasmo con Roll away Your Stone, pezzo in cui il suono arioso della tastiera di Ben Lovett la fa da padrone, mentre i sintetizzatori e la chitarra di Snake Eyes riportano al presente i 12mila avventori del Rock in Roma che sembrano non soffrire troppo il cambio di registro. Con la title track dell’ultimo album Wilder Mind, Marcus Mumford scende di qualche ottava, chiude gli occhi, sembra volersi godere il momento entrando in intimità con quell’Italia che sostiene di aver sempre adorato. Si torna a “Sign no more” e il pubblico si scatena di nuovo al ritmo di Awake my soul, ma soprattutto di Lover of The Light (hit di “Babel”), con il cantante che si siede alla batteria scandendo il ritmo di uno dei momenti più alti del live. Il concerto dei Mumford and Sons va avanti così fino alla fine. Esplosioni e balli scatenati sui i vecchi pezzi interrompono il ritmo più contenuto ed elegante dei nuovi brani, in cui il pubblico tira il fiato, pur continuando a cantare ogni canzone. Sulla splendida Thistle & Weeds le luci si abbassano di nuovo, le tastiere tornano ancora una volta protagoniste in un crescendo finale che sembra quasi spezzarti il cuore mentre il frontman urla “I will hold on”.

Il suono delicato della chitarra acustica annuncia l’inizio di Ghosts that we knew, impreziosita da un violino straziante e da un pianoforte melodioso. Siamo in 12mila, in uno spazio enorme, sotto un cielo stellato, eppure i quattro musicisti inglesi riescono a creare un’atmosfera talmente intima da dare ad ognuno l’impressione di essere solo, con i propri pensieri e con i “fantasmi che conosceva”. Si sale di nuovo con Believe, senza dubbio il brano più convincente del nuovo album, e con Tompkins Square Park cadenzata dal suo basso convincente. The Cave, una delle canzoni più attese, fa di nuovo impazzire tutti prima di lasciare il passo al momento acustico, in cui i quattro si ritrovano al centro del palco, davanti al solo microfono. Thimshel e Cold Arms vengono suonate solo con chitarra e banjo, mentre le voci dei quattro si uniscono leggere e fluide cantando “quasi a cappella”. Si va verso la fine: prima Only Love, poi Ditmas e infine Dust Bowl Dance accompagnata da una cascata di luci. Marcus Mumford chiama sul palco Filippo (vero idolo della serata), un fan che dopo aver abbracciato chiunque ci fosse su quel palco (pure il tecnico ha temuto per un attimo di ricevere un’esternazione d’affetto), fa da interprete e riporta al pubblico romano i ringraziamenti che il frontman gli sussurra all’orecchio.  Siamo alla fine. Un ultimo regalo dal passato, Little Lion Man, e poi il concerto dei Mumford and Sons si chiude con The Wolf, lasciando a tutti la sensazione che, nonostante i cambiamenti, a volte più convincenti altre meno, è rarissimo trovare quattro ragazzi così giovani capaci di suonare in questo modo. Prima musicisti, singolarmente, poi gruppo. La prima volta a Roma li abbiamo visti all’Atlantico, la seconda al Rock in Roma, la terza, forse, sarà allo Stadio Olimpico, perché è questo che si meritano: la consacrazione definitiva.

Vittoria Patanè

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