“Il Caso Spotlight” è un film asciutto ed essenziale proprio come lo stile giornalistico inglese o americano che non si perde in fronzoli e inutili preamboli, nemmeno quando si tratta di approfondire, perché la differenza tra uno scrittore e un giornalista è tutta racchiusa nella capacità di quest’ultimo di saper scovare la notizia. E, come un segugio che si affida al suo intuito, il cronista, dotato però di logica, indaga tra le righe di vecchi articoli, magari relegati in fondo alle pagine della cronaca locale. Un bravo direttore dovrebbe essere innanzitutto un ottimo cronista, proprio come Marty Baron (Liev Schreiber) che, non appena arriva al Boston Globe nel 2001, chiede al team di Spotlight di indagare su alcuni casi di pedofilia in ambito ecclesiastico, sui quali il più autorevole quotidiano della città del Massachusetts aveva scritto pochi articoli anni prima. La squadra d’inchiesta del Boston Globe si mette subito al lavoro; la commissione è costituita da professionalità diversificate: Michael Rezendes (Mark Ruffalo) che con andatura ipercinetica si riversa nello studio dell’avvocato Mitchell Garabedian (Stanley Tucci) riuscendo con perseveranza a ottenere poi documenti riservati; il caporedattore Walter Robinson (Michael Keaton); Matt Carroll (Brian d’Arcy James), specializzato in ricerche informatiche; Sacha Pfeiffer, dotata di una spiccata sensibilità, con cui riesce a ottenere la fiducia delle vittime e a farsi rilasciare dichiarazioni non fraintendibili. A rivestire questo ruolo è un’ottima Rachel McAdams, che aveva già interpretato reporter o comunque esperti di comunicazione, quale Della Frye di “State of Play” (2009), dove l’attrice veste i panni di una blogger che lavora con un cronista vecchio stampo, e come la produttrice de “Il buongiorno del Mattino” (2010), commedia che riflette sulle dinamiche televisive negli Usa, dove sempre più spesso la notizia è secondaria all’intrattenimento.
“Il Caso Spotlight” affronta con imparzialità il tema delicato e spinoso degli abusi su minori da parte di una settantina di preti; si scopre nel corso delle ricerche che si tratta purtroppo di un fenomeno su scala mondiale. L’inchiesta non è mai secondaria alla materia trattata che fa rabbrividire e costringe lo spettatore a farsi alcune e importanti domande; le stesse che si pongono i cronisti, tutti di formazione cattolica. La macchina da presa di Thomas McCarthy si muove con cautela, raziocinio ma con agilità in un ambiente omertoso, facendoci capire immediatamente qual è il campo d’azione attraverso la scritta iniziale “Boston Police – District 11”. La polizia sa e finge di non vedere, perché segue la logica del cardinale Law (Len Cariou), il quale dice al nuovo e incorruttibile direttore del Globe che per il bene della città le Istituzioni devono lavorare in sinergia. “Il Caso Spotlight”, paragonato da molti colleghi a “Tutti gli uomini del presidente” (1976) per me è un film che somiglia solo a se stesso, perché è figlio del suo tempo ed è molto più vicino alla realtà di tante altre pellicole sul giornalismo, giacché non trasforma questi cronisti in eroi dell’ultim’ora.
Il team di Spotlight, nonostante abbia gli stessi dubbi e timori dei comuni fedeli, non si lascia intimidire dalle difficoltà, come si vede in molte sequenze, ed è supportato dall’editore, che vediamo solo in una scena, e dal direttore. Entrambi mettono i lettori in primo piano, ma lo fanno solo perché i tempi sono ormai maturi per indagare su fatti così scomodi. Il web sta surclassando la carta stampata e le vendite devono salire, almeno questo s’intravede tra le righe. “Il Caso Spotlight” nel complesso è un film ben strutturato, con una sceneggiatura robusta e con una fotografia dalle tonalità del grigio, in sintonia con il colore dell’inchiostro e delle pareti della redazione. I primi piani sono rarefatti perché l’emotività dei personaggi è secondaria alla storia da raccontare racchiusa in oltre 600 articoli che i lettori del Globe lessero dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Nel film si comprendono meglio le dinamiche del giornalismo contemporaneo che tuttavia segue sempre le stesse regole: la tempestività della notizia e l’attendibilità delle fonti innanzitutto; nel caso di Spotlight il fattore tempo gioca un ruolo essenziale, perché un’inchiesta non si può realizzare in quindici giorni ma ci vogliono mesi, a volte – dice Robinson – anche un anno giacché la fretta di pubblicare può giocare brutti scherzi come accadde a Michael Finkel, licenziato dal Times per aver scritto e divulgato un articolo basato su informazioni fasulle o peggio ancora a Stephen Glass che addirittura inventò i propri scoop. Insomma, “Il Caso Spotlight” è una pellicola da non perdere per la materia trattata, che è d’interesse generale, e per quel fascino che continua a esercitare sull’opinione pubblica il giornalista, al centro di numerose pellicole, quali per esempio “L’ultima minaccia” (1952), dove la frase «E` la stampa, bellezza!» è diventata celebre facendo così assumere al giornalismo le sembianze di un cane che azzanna chi oltraggia i diritti dei singoli e della collettività. Spotlight ha soprattutto questo merito. Di seguito il trailer.