Lorenzo Cilembrini, in arte Il Cile, è un cantautore aretino di 32 anni con un’innata passione per la scrittura ed un’incontrollabile tendenza al continuo “labor limae”. La sua dedizione alla musica è tale che, attraverso il suo animo rock e gentile al contempo, egli riesce spesso a cogliere il senso più intimo delle emozioni. Rabbia, amore, sballo e riflessione sono i cardini del proprio sentiero fatto di note e, dopo il successo del suo primo album intitolato “Siamo Morti a Vent’Anni”, seguito da un fortunato tour che lo ha visto aprire alcune date del tour di Lorenzo Jovanotti negli stadi, lo scorso 8 gennaio Lorenzo ha pubblicato anche il suo primo romanzo, intitolato “Ho smesso tutto”: una full immersion nell’enigmatico ed avventuroso mondo delle rock star.
“Ho smesso tutto” è il titolo del libro che hai appena pubblicato per la casa editrice Kowalski. Sul tuo profilo facebook hai scritto, tra le altre cose, che si tratta di un’opera dissacrante sulla figura dei cantanti. Da cosa è nata la voglia e l’ispirazione per scrivere questo libro e quali sono le tematiche che credi di aver trattato più approfonditamente al suo interno?
Il libro è nato da un interessamento della casa editrice Kowalski alla mia scrittura. L’attitudine è stata quella di provare a dare vita a qualcosa di appassionante per me e per gli eventuali fruitori dell’opera. Ho così creato la figura di questo musicista vessato da rapporti sentimentali assurdi ed ingestibili che fanno da cornice al suo mestiere che è quello di scrivere canzoni e portarle sopra i palchi con la sua band. Il libro non ha velleità classiche, a livello stilistico è un piccolo zibaldone di immagini dissacranti, trasgressive e talvolta tragicomiche di quello che può essere inseguire il sogno della vita da rockstar che molto spesso nasconde più insidie che gioie.
Quali sono, secondo te, i pensieri più ricorrenti “di chi fa, cerca di fare o s’impegna a fare musica” nel 2014?
Ad oggi fare il musicista di professione, in qualità di emergente o comunque essendo all’inizio del cammino, è un lavoro precario ma emozionante a tutti gli effetti. Credo che la crisi discografica e l’avvento di internet stiano a loro modo effettuando una selezione naturale dei gusti, dei talenti e del pubblico. Sto notando sempre di più che chi ha davvero qualcosa da dire in qualche modo raggiunge la sua platea, più o meno grande, e invece chi ricicla idee e stili già masticati si perde nel mare magnum dell’offerta infinita che il panorama musicale oggi offre. I pensieri più ricorrenti quindi sono : riuscire ad essere originali, veri ed in grado di toccare fino a profondità abissali l’anima degli ascoltatori.
Quali, invece, le paure, i dubbi e le incertezze con cui dover fare i conti?
La paura è non riuscire ad andare avanti, non rinnovarsi, perdere la scintilla che fa la differenza. Fare musica oggi è un po’ come la formula uno: ci si può fermare ai box ma solo per il cambio gomme ed il rifornimento, poi si torna a correre.
Il tuo percorso artistico ti ha visto protagonista di una serie di importanti esperienze come l’opening del “Lorenzo negli Stadi tour”, il Rock in Roma, il Festival di Sanremo ed il “Siamo morti a vent’anni” tour che ha ottenuto ottimi riscontri. Ti va di fare un bilancio di quello che tutto questo ti ha lasciato umanamente ed artisticamente?
Posto che, a mio parere, in questo mestiere, più che in altri, non si finisce mai di imparare e si cerca sempre di migliorarsi, posso dire che tutte queste esperienze mi hanno dato strumenti fondamentali per lavorare con ancora più dedizione ad un disco o ad un live. Le ansie e le preoccupazioni ci sono e ci devono essere, la superbia è la rovina finale per un artista, ma, allo stesso tempo, quando si ha un certo tipo di bagaglio, certe insicurezze diventano ostacoli meno insormontabili e la passione per la musica rinvigorisce e diviene più solida.
Hai un rapporto molto stretto, a tratti fraterno, con i Negrita, come vi siete conosciuti? C’è qualche aneddoto che i tuoi fan ancora non conoscono a riguardo?
Sì, posso dire di avere realizzato il sogno di migliaia di ragazze italiane, ovvero ho dormito con Pau. Mi spiego meglio: la sera antecedente alla mia primissima registrazione per una trasmissione televisiva, dove anche i Negrita si sarebbero esibiti, festeggiamo il compleanno di Cesare (chitarrista dei Negrita) con una cena diciamo “molesta” (almeno per me). Al ritorno in hotel il mio disorientamento nel trovare la mia camera e aprirla mediante l’utilizzo di una scheda magnetica era tale che Pau, preso dalla compassione, e con una pietas cristiana, che mai dimenticherò, mi fece entrare nella sua stanza e crollare nell’altra metà del letto. Al mio risveglio fu anche così paziente da spiegarmi il numero della mia stanza e dove avesse riposto la mia scheda al fine che non la perdessi. Colgo l’occasione per ringraziarlo ancora.
Sempre su facebook hai scritto che “Le parole non servono più” è un brano che smuove tante cose dentro di te. Quali sono le emozioni che ti suscita?
In quel caso: malinconia, disillusione, nostalgia, paura ed accettazione.
“Siamo morti a vent’anni” è stato il lavoro discografico che ti ha aperto l’accesso al sentiero che conduce all’olimpo dei grandi. Te l’aspettavi? Quali sono le tue prospettive adesso? Stai scrivendo nuovi brani? Come vorresti che fosse il tuo nuovo album?
Per l’olimpo dei grandi la strada ancora è lunghissima ma mi sto dando e mi darò da fare con tutte le mie forze. Stiamo per completare le registrazioni del nuovo album, che sarà un album più variegato da un punto di vista di emozioni, stile e liriche. Ovviamente dentro ci sarò io con i miei demoni, i miei sogni, i miei amori e le mie speranze.
Raffaella Sbrescia