Torna al cinema il 15 dicembre per tre giorni il cult dei fratelli Coen. La recensione e trama del film Il Grande Lebowski.
Il 15 il 16 e il 17 dicembre il circuito The Space Cinema ripropone un classico intramontabile dei cineasti più fuori dagli schemi di Hollywood.
Joel ed Ethan Coen fin dal loro esordio, “Blood Simple” (1984), hanno contribuito a rifondare, attraverso innovazione e revisionismo, il linguaggio cinematografico tradizionale passando da riletture del thriller a commedie grottesche, da incubi lisergici a rocciosi tributi al western d’autore.
Nel 1998, a due anni di distanza da “Fargo”, tornano ad occuparsi di outsider senza riscatto, imbastendo, come nella migliore tradizione vaudeville, una parodia deformante della moderna società affogata nell’otium e squadrata di sbieco dall’occhio anestetizzato del protagonista, un cialtrone di professione strafatto di marijuana e annegato nel White Russian, esplosiva miscela a base di vodka.
Perennemente in calzoncini corti, sandali e barba lunga, Jeffrey “Drugo” Lebowski è un debosciato fannullone che si trascina nella Los Angeles degli anni ’90 tra interminabili partite a bowling con gli allegri compari, l’irascibile Walter e il più compassato Donny, e fumate (mai) occasionali che riempiono il vuoto della sua insignificante vita.
In un giorno come tanti capitano a casa di Jeffrey due sicari professionisti che, scambiandolo per un ricco magnate omonimo, lo minacciano urinando sul suo tappeto preferito. Intenzionato a farsi risarcire il danno subito, Drugo si reca dal benestante Lebowski spiegandogli l’accaduto, ma, suo malgrado, diventa pedina inconsapevole di macchinazioni subdole e loschi intrighi. Intorno a Jeffrey, alfiere della controcultura sprofondato in siparietti onirici alla Busby Berkeley, si dipana un teatro dell’assurdo nella miglior tradizione nineties che da “Twin Peaks” giunge ai fratelli Coen, tra improbabili indagini investigative e atmosfere chandleriane (la trama è ispirata a “Il Grande sonno” proprio di Raymond Chandler). Azzerando completamente le presenze oscure incombenti nel serial di Lynch, il settimo film di Joel ed Ethan Coen (autori anche del soggetto e della sceneggiatura) ospita una bizzarra galleria di personaggi folli, caustici e divertentissimi, inaugurata da Jeffrey Lebowski, perdente per antonomasia e fautore di un otium “appassionato”.
Tra gli altri, un folle reduce dal Vietnam suo amico, una banda di criminali chiamati nichilisti, stralunati bocciofili che fanno del campo da gioco una trincea bellica, donne che sfogano malsani istinti materni, filosofi impenitenti e miliardari senza scrupoli.
All’universo grottesco il cui centro è Jeff Bridges nei panni lerci di Drugo, icona cult e antieroe simpaticissimo, fanno da contraltare spunti narrativi che riprendono tematiche noir e gangster, microcosmi raccontati attraverso il filtro della black comedy e del western, della satira carnevalesca e del musical. Insomma, quel che si potrebbe definire un vibrante e allucinato carosello è, in realtà, un inno accorato e rutilante, tra il comico e il tragico, alla cinefilia più erudita, al citazionismo dotto e popolare, alla rivisitazione che unisce vecchio e nuovo con lo sguardo in tralice del narratore pervicace. Tra onirismo e surrealtà, “Il Grande Lebowski” per molti è il capolavoro indiscusso dei fratelli Coen, grazie agli straordinari interpreti (John Goodman, Steve Buscemi, John Turturro, Julianne Moore) e a una trama sgangherata che depista continuamente lo spettatore accartocciandosi su se stessa e sfruttando gli inneschi narrativi dei tanti “MacGuffin” disseminati nel plot. Appuntamento al cinema dunque, per festeggiare i sessant’anni del più grande dei fratelli, Joel, nato il 29 novembre del 1954.
Vincenzo Palermo