Semplicemente Jason Bourne. Il nuovo film di una delle serie pop più gettonate della cinematografia mondiale fa spettacolo, caricandosi di pathos soprattutto verso il finale come ogni buon action movie dovrebbe fare. E, difatti, per vedere lunghe scene d’inseguimenti e automobili che si scontrano, bisogna superare la prima mezz’ora del secondo tempo (c’è una sequenza nel primo tempo) giacché gran parte della pellicola si concentra sul dissidio interiore di un ex agente dei servizi segreti americani, Jason Bourne, che ha dato ancora una volta un taglio col passato, recandosi in Europa, precisamente in una Grecia sconvolta da lotte intestine, nelle quali lo spettatore viene subito catapultato. Matt Damon ci mancava. Ammettiamolo. Jason Bourne e l’attore statunitense – che nel frattempo con la sua solita faccia da bravo ragazzo ha ritrovato forma fisica e glamour – sono legati da un filo indissolubile. Senza Damon, Bourne è solo un nome privato di un’identità precisa. Ed è questa la parola che fa da sfondo a tutto il film: Identità. Bourne qui come nelle altre tre pellicole precedenti tenta di conoscere altri particolari del proprio passato. Il protagonista si è allontanato dalla terra natia e, per mettere ordine, si è immerso nella quotidianità del vecchio continente. Ma in Europa la tensione regna sovrana. Bourne è un patriota con dei valori ben precisi e forse desueti, che nonostante abbia subìto il lavaggio del cervello sa riconoscere ancora il bene.
Per ritrovarsi Jason Bourne deve rientrare negli Usa e affrontare i suoi demoni estirpandoli alla radice. Coinvolto da Nicky, agente interpretata da Julia Stiles (ebbene sì Jason ha sempre una donna su cui contare), deve distruggere i fautori di un nuovo programma, ancor più letale, che si avvale questa volta della tecnologia o meglio dei social network (il riferimento a Facebook è evidente) per mettere in piedi una cellula terroristica. Insomma, il male, che divora l’America, è una sorta di cancro; è una malattia interna che distrugge tutto ciò che tocca. Di conseguenza, bisogna difendersi non più dai sovietici, come accadeva nei vecchi film di spionaggio, bensì dai compatrioti che scendono a patti con il diavolo. E in questo il quinto film della serie è molto contemporaneo, anche se non è il migliore della saga.
Potrei definire la regia di Paul Greengrass classico-moderna, perché, pur non discostandosi tanto dai cliché di un genere inflazionato, il regista riesce tuttavia a dare un messaggio ben preciso. Non annoia e conferisce brio alle sequenze. Le inquadrature sono ipercinetiche, movimentate, convulse; la fotografia ha le tonalità del grigio come anche gli abiti dei personaggi. Tutto è rigoroso, preciso, puntuale, per certi versi rigido nel suo movimento convulso. Eppure una sbavatura c’è in un contesto impeccabile. I capelli disordinati di Heather Lee – che ha uno chignon casereccio, tenuto in piedi da una pinza proprio come una casalinga disperata – la dice lunga sulle sfumature di una pellicola da non perdere. Penso sia una casualità o forse è intenzionale?! Lee – impersonata da una rigorosa e ingessata Alicia Vikander – è ambigua e la sua mise fin troppo androgina e claustrofobica ricalca appieno la personalità di questa donna dalla faccia angelica che, forse, è solo una maschera e finge di essere ciò che non è. Ottime anche le performance di Vincent Cassel, nei panni di uno spietato killer europeo (ancora una volta l’America si rivolge alla vecchia Europa e anche qui ci sarebbe da scrivere tanto), e di Tommy Lee Jones, nel ruolo del direttore della CIA Robert Dewey. Ed ecco il trailer di Jason Bourne e alcune immagini.