La recensione, la trama e il trailer dell’ultimo film della trilogia di Peter Jackson
“Lo Hobbit. La battaglia delle cinque armate”: ampie panoramiche con vedute spettacolari, realizzate in digitale, un green screen senza sbavature e una pellicola girata alla velocità di 48 fotogrammi al secondo, un mero esercizio stilistico che però non ci soddisfa appieno perché manca l’essenza stessa del cinema, cioè quel messaggio e quel pathos che dovrebbero essere alla base di un action fantasy e che nei primi due film della trilogia c’erano, tanto da incuriosirci e spronarci a guardare il finale, dopo tre anni di attesa.
E proprio verso la fine Peter Jackson si perde. La battaglia non emoziona, non coinvolge e ci lascia quasi indifferenti, sicuramente perché la produzione e il regista erano troppo preoccupati di stupire con gli effetti speciali e, quindi, hanno proposto senza alcuna innovazione idee già viste. La trilogia, che s’ispira al lavoro capillare e meticoloso di Tolkien, in realtà nel suo insieme convince. E vediamo perché, prima di esaminare alcuni aspettati della trama dell’ultimo capitolo de “Lo Hobbit”, al cinema dal 17 dicembre.
Nella trilogia (esaminata complessivamente, trascurando gli ultimi 20 minuti del terzo flm) c’è quella morale che – come scrive l’autrice di “Donne che corrono coi lupi”, Clarissa Pinkola Estès, nel nuovo libro “I desideri dell’anima. Miti, leggende, antichi messaggi e storie immortali” (Sperling & Kupfer) – è presente in molte fiabe e favole dell’antichità. Il culto del denaro e del possesso annebbiano anche la mente dell’uomo più saggio. Si usano dunque linguaggi metaforici, esseri fantasiosi e mondi “altri” per esprimere e semplificare concetti che l’inconscio già conosce. Queste storie, secondo la celebre psicoanalista, invitano inoltre la psiche a sognare su qualcosa che sembra familiare e che spesso tuttavia affonda le sue origini in un tempo remoto.
Le fiabe sono in realtà, sempre per Clarissa Pinkola Estès, come lastrine di una lanterna magica che registrano lo Zeitgeist, ovvero lo spirito del tempo, cioè la tendenza culturale di una data epoca. Quindi, non possiamo stupirci se nell’ultimo film della trilogia (soprattutto verso il finale), “Lo Hobbit. La battaglia delle cinque armate”, la forma, propria come accadeva in epoca Barocca, prevale sulla sostanza, perché lo Zeitgeist del nostro tempo è l’apparire. Stupire anziché essere. Ma veniamo alla trama. Avevamo lasciato lo hobbit, Bilgo Baggins, e la compagnia dei nani nella montagna del drago Smaug, che intanto procede verso Pontelagolungo per distruggere la città degli uomini. Bilbo però deve fronteggiare e far ragionare Thorin Scudodiquercia che, di fronte all’immenso tesoro custodito nel cuore del monte, sta per perdere il lume della ragione. Nel frattempo Sauron, con un esercito di orchi, decide di attaccare la montagna solitaria, sotto lo sguardo impotente del mago Gandalf, simbolo della saggezza dell’umanità.
Gli elfi, gli umani e i nani dovranno unirsi per combattere il male e riportare l’ordine nella terra di mezzo, mentre Bilbo custodisce l’anello magico che gli permette di scomparire nei momenti clou; si tratta di quel gioiello da cui prende vita “Il Signore degli anelli”, la saga che tanto ci ha appassionato agli inizi del 2000, creando un genere cinematografico che, nonostante abbia perso di originalità, è comunque in buona salute e continua a riempire le sale cinematografiche del mondo. “Lo Hobbit. La battaglia delle cinque armate” è stato girato con la finalità di intrattenere e stupire, anziché farci riflettere. Obiettivo raggiunto!
Maria Ianniciello