“Mr. Turner” riesce nell’ardita impresa di pennellare, come sprazzi di colore su tela, la vita del pittore ottocentesco William Turner. La recensione e la trama del film, presentato in anteprima nazionale presso la Cineteca di Bologna e raccontato in prima persona da Mike Leigh e Marion Bailey.
Pacioso e serafico come sempre, Mike Leigh, insieme alla sua attrice feticcio Marion Bailey, attraversa la sala Scorsese della Cineteca di Bologna per raggiungere il palco d’onore. Solo due parole agli impazienti spettatori, a cui il regista britannico dà appuntamento a dopo la proiezione del suo tredicesimo lungometraggio per evitare che il sonno e la stanchezza deturpino la visione. Torneranno a proiezione ultimata per discorrere amabilmente e interagire, con grande disponibilità, con il numeroso pubblico accorso al cinema. Inizia “Mr. Turner”, insolito biopic su una delle personalità artistiche più controverse dell’Ottocento londinese. Paesaggista umorale e mirabile incisore, Joseph Mallord William Turner incarna, nella visione quotidiana del cineasta, la poetica dell’ “every man” consumato dalle sue inquietudini e con le mani sempre sporche di oli e pigmenti. Nella prima sequenza, timidamente illuminata da una fievole luce crepuscolare, si cela la chiave di lettura dell’intera opera, in bilico tra sublimità estetica e ordinarietà narrativa. La vita del pittore dei naufragi e delle tempeste, delle calamità marine e dei paesaggi burrascosi, scorre lenta e inesorabile, rischiarata da rifrangenze luminose appena visibili negli squallidi e bui vicoli di Covent Garden, luogo che gli diede i natali nel 1775. Crepuscolare come le studiate scelte luministiche della fotografia di Dick Pope, “Mr. Turner” rappresenta, in tutte le sue sfumature e gradazioni, un ritratto umano che pone, nell’ordinario, la straordinarietà della “divina mania” creatrice. Tra mesti grugniti e smorfie, Turner vive sprofondato in un’esistenza greve, poco incline a stabilire durevoli relazioni e dotato di temperamento lunare che lo allontana dall’umano consorzio. Dominato da un’insana passione per donne attempate, assiste impotente alla morte del padre, unico compagno di ventura con cui era solito motteggiare in sboccato idioma, ma riesce a trovare sfogo al suo dolore grazie alla pittura, attraverso cui stabilisce un ponte col mondo della luce e della tenebra. Invaghitosi dell’affabile locandiera Sophie Caroline Booth presso cui si reca sovente, conduce una vita priva di enfasi, diviso tra il famelico appetito sessuale per la sua devota donna di servizio, l’affetto smisurato per mrs. Booth e i viaggi che compie per esporre e “ammirare” i suoi quadri. Ci sono alcuni elementi che saltano subito all’occhio e che si inseriscono in modo coerente nel lirico umanesimo di Mike Leigh. In “Mr. Turner” sono volutamente amplificati, grazie ad un lavoro di fino nella sceneggiatura e ad una cesellatura meticolosa e appassionata, nonostante la progressione narrativa proceda per quadri affastellati piuttosto che per momenti di puro pathos. Innanzitutto, la mancanza di didascalie e di coordinate spazio-temporali fa perdere di consistenza biografica la canonica struttura del biopic, mentre non viene dato alcun rilievo storicizzante agli eventi più importanti della vita dell’artista, da detrattori e seguaci conosciuto come “il pittore della luce”. Poco usuale, inoltre, la scelta di iniziare una biografia partendo dal momento di massimo successo dell’uomo già anziano ritraendone, con solita perizia formale, dibattiti appassionati tra artisti, scene di vita quotidiana e momenti di lucidità creatrice. Del resto Leigh è il cantore della vita colta nel suo ineluttabile fluire, il poeta del realismo inglese, come Ken Loach e tanti altri cineasti che hanno saputo volgere lo sguardo all’ “underclass” britannica e ad un antropocentrismo svuotato da leggende e mitologie e orientato alla gente comune. A fine proiezione Mike Leigh e Marion Bailey rispondono alle domande del pubblico, illustrando il percorso creativo dell’opera. Il regista di “Segreti e bugie” e “Another Year” spiega perché ha scelto Timothy Spall per il ruolo da protagonista, definendolo un esponente della working class, appassionato di pittura ottocentesca e possessore di una barca con cui ha circumnavigato le isole britanniche. Se Marion Bailey puntualizza il discorso sulla centralità della performance attoriale, Leigh le fa eco sostenendo che l’arte, non fuoriuscendo come intangibile ectoplasma, ha bisogno di essere reificata in sangue e muscoli, nelle mani sporche, nell’operare continuo dell’ “homo faber” che costruisce la sua esistenza con sudore e fatica. Parla inoltre del suo rapporto col digitale e con la tecnologia, il cui rimando allusivo nel film è all’esperienza vissuta da Turner col primo esemplare del dagherrotipo che gli fa preconizzare l’avvento della fotografia. Estromettendo il dato storicizzato e riempiendo di senso ogni sequenza in virtù della potenza espressiva del racconto, Leigh orchestra un suadente canto corale a più voci con i suoi attori prediletti, che restituisce la temperie di un’epoca e le inquietudini di William Turner, uomo ancora prima che pittore, rappresentante assoluto del sublime romantico e apripista del movimento impressionista di metà Ottocento.
Vincenzo Palermo