Tremano i polsi nel trattare il tema dell’Olocausto attraverso i film al cinema, perché non è “soltanto” un argomento; in realtà si ha sempre timore di (s)cadere nella retorica e ci sente come un elefante in un negozio di cristallo. Chi scrive lo fa col desiderio di rispettare coloro che non ci sono più, chi è sopravvissuto e chi non sa, con la voglia di scoprire ancora proprio grazie alla Settima Arte. Forse il primo film che tutti ricordiamo a riguardo è “Il grande dittatore” (1940) di Charlie Chaplin. Col tempo si è creato un vero e proprio filone cinematografico se pensiamo a titoli come “Arrivederci ragazzi” (1987) di Luis Malle, “Schinderl’s List” (1993) di Steven Spielberg, “La tregua” (1997) di Francesco Rosi, “La vita è bella” (1997) di Roberto Benigni, “Train de vie – Un treno per vivere” (1998) di Radu Mihăileanu o “Il pianista” (2002) di Roman Polanski. Molte di queste opere sono nella memoria di ciascuno di noi e hanno segnato la storia del cinema conquistando diversi riconoscimenti, tra cui l’Oscar. Anche quest’anno all’importante corsa concorre un titolo che difficilmente dimenticheremo, “Il figlio di Saul”, opera prima dell’ungherese László Nemes. Colpisce come in queste settimane, forse più che in altre annate, il cinema tratti la Shoah declinandola in vari aspetti, da cui emerge sempre un minimo comune denominatore: l’imbruttimento umano e le vittime da non dimenticare. Il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria, ma il grande schermo ha iniziato a richiamarci dal 14 con “Il labirinto del silenzio” di Giulio Ricciarelli e continuerà a farlo fino al 4 febbraio con “Remember” di Atom Egoyan. Scopriamo questi lungometraggi nelle loro peculiarità.
“Il labirinto del silenzio” di Guido Ricciarelli (14/01) per chi ama i thriller. Il film è girato con quella tensione e mette in scena il momento in cui la Germania si confronta con lo scomodo passato nazionalsocialista (siamo nel 1958). Parla del periodo dell’Olocausto di riflesso, scavando in una porzione della storia poco conosciuta e questo è senza dubbio un merito. Non ci sono infatti produzioni per il piccolo o grande schermo inerenti a quel preciso momento storico, fatto volutamente cadere nell’oblio. Va detto che l’immaginazione del regista-sceneggiatore ha esperito una storia inventata, innestandola su fatti documentati storiograficamente, unendo personaggi realmente esistiti a quelli creati ad hoc. “Il figlio di Saul” di László Nemes (21/01) per chi non ha paura di vedere né di sentire. C’è un gioco di fuochi e talvolta i corpi sono sfocati, ma semplicemente perché il protagonista non è concentrato su quello. Quest’opera è scomoda perché non usa mezzi termini, penetra proprio come il volto di Saul e trascina, con rigore stilistico, nel vortice della camera a gas e dei campi della morte. Lo stare della macchina da presa sull’uomo, un sonderkommando, fa scattare un piano emotivo che si sente sulla pelle, tentando di rappresentare il non rappresentabile. «Seguendo i movimenti di Saul, ci fermiamo davanti alla porta della camera a gas, per entrarvi solo a sterminio avvenuto per la rimozione dei corpi. Le immagini mancanti sono quelle della morte dei prigionieri; immagini che non possono essere ricostruite né dovrebbero essere toccate o manipolate in alcun modo», ha dichiarato il regista.
“The Eichmann Show” di Paul Andrew Williams (nelle sale 25, 26 e 27 gennaio) potrebbe incuriosire gli amanti della comunicazione. Se cercate online troverete dei filmati di repertorio inerenti a questo famoso processo svoltosi a Gerusalemme nel 1961. Dopo la cattura del criminale nazista Adolf Eichmann, lo Stato d’Israele decise di mandare in diretta il suo processo e la regia fu affidata a Leo Hurwitz, inserito nella lista nera del senatore McCarthy per le idee di sinistra. La sua natura di documentarista lo portò alla ricerca dei livelli profondi della natura umana e in questo film Williams unisce alle immagini di repertorio la ricostruzione filmica puntando l’attenzione sul carattere mediatico della vicenda. “Una volta nella vita” di Marie-Castille Mention-Schaar (27/01) è istruttivo in primis per gli insegnanti perché ricorda l’approccio che bisogna avere verso i ragazzi e che per la riuscita di questo ruolo ci vuole anche tanto spirito d’iniziativa. Questa data del 27 gennaio è diventata un appuntamento fisso e tanti studenti così come molti docenti – non li si può condannare – lo affrontano come un compitino da fare. La professoressa di storia Anne Gueguen propone di partecipare a un concorso a una classe non eccelsa, costituita da tante etnie. Per questo lungometraggio non emerge soprattutto la tecnica cinematografica, quanto la funzione di ricordare ed educare alla memoria. «Imparare a condividere fu un processo lungo, dovemmo abituarci a parlarci senza prenderci in giro a discutere di argomenti che non fossero i pettegolezzi del liceo. La nostra insegnante ci insegnò a esprimerci, ad affidarci alla nostra identità, alle emozioni piuttosto di cercare di essere esaustivi ed enciclopedici. Proponendoci di partecipare a quel concorso infuse sicurezza in ciascuno di noi», racconta Ahmed Dramé nel libro omonimo.
“Remember” di Atom Egoyan (4/02) per chi non ha timore di far un viaggio col protagonista in un passato inquietante, provando le emozioni della vendetta. Qui si crea un meccanismo strano perché l’anziano ebreo Zen (Cristopher Plummer) sta manifestando i sintomi dell’Alzheimer perciò anche lui ha bisogno di aiuto nel ricordare. Questo film si caratterizza per tinte da thriller e un ribaltamento/una scoperta finale. «Questa è l’ultima storia che si può raccontare al giorno d’oggi in relazione a quel periodo storico», ha sottolineato il regista. «Affronta il tema degli effetti residuali della storia nel corso del tempo e di come formiamo la nostra identità in particolare quando la nostra storia personale comporta un evento traumatico. Questo concetto di come il tempo e il trauma si rifrangono attraverso le generazioni è al centro di tantissimi materiali che mi interessano. Di sicuro è il tema di “Ararat – Il monte dell’Arca” (realizzato dallo stesso Egoyan inerente al genocidio degli armeni, nda) e lo ritroviamo anche in questo film: le conseguenze di eventi storici sui figli degli autori dei crimini, sui figli dei superstiti, che si ripercuotono in modi del tutto inattesi. È impossibile prevedere quali saranno gli effetti e quest’incognita pervade il film». «Se l’eco delle loro voci s’indebolisce, noi periremo», si ascolta in “Una volta nella vita”. Ecco, è difficile accettare quella banalità del male di cui parlava la Arendt, ma quelle testimonianze non possono spegnersi tanto più pensando a quando, per il ciclo vitale, i testimoni dell’Olocausto non ci saranno più. Georges Didi-Huberman nel libro “Immagini malgrado tutto” (Raffaello Cortina Editore, 2005) si e ci pone tanti interrogativi sull’etica delle stesse, se siano sempre lecite, quale sia il limite e la sua tesi emerge sin dal titolo. Il giornalista Gad Lerner ha evidenziato come tutti noi «ci diamo mille alibi per non guardare ciò che è scomodo». Il Cinema non ci dà sconti e ognuno dei registi citati si assume, a proprio modo, questa responsabilità, optando per uno specifico punto di vista (dal più originale a quello più classico).