La recensione dello spettacolo “Servillo legge Napoli”, visto al Teatro Carlo Gesualdo il 16 dicembre 2014 e allestito nell’ambito della rassegna Teatro Civile.
Molto tempo fa lessi un libro di Sergio De Santis che s’intitola “Malussìa. Storie del vulcano muto” (Avagliano Editore). Si tratta di una raccolta di racconti sulle terre vesuviane, patria della cupa rassegnazione che da oltre un secolo è regina indiscussa di Napoli e che accomuna l’antologia di De Santis, pubblicata nel 2000, con la poesia partenopea di ieri e di oggi. Ho ripensato al libro il 16 dicembre presso il Teatro Carlo Gesualdo di Avellino, dove Toni Servillo con la sua voce ricca di sfumature e di toni suadenti, a tratti rochi, ha recitato una serie di poesie per raccontare e “leggere” Napoli.
L’attore ha esordito con un classico napoletano, cioè con “Lassamme fa’ a Dio” di Salvatore Di Girolamo, poemetto tragicomico che narra della venuta di Dio e di San Pietro sulla terra. Siamo agli inizi del Novecento. Il Signore, accompagnato da San Pietro, si ferma a Napoli, dove incontra i poveri e gli affamati che inteneriscono il cuore dell’Onnipotente, il quale decide di aiutarli, portandoli con sé e offrendo loro vivande mai assaporate.
Una donna però non trova pace perché vuole tornare sulla terra dal suo bambino che ha fame e ha bisogno di lei. La poesia si fa teatro per dare voce al popolo minuto che trova la forza di andare avanti sperando nei miracoli. Da Di Girolamo Servillo, con la maestria del grande interprete, che gioca sapientemente con i colori della voce, è giunto a Eduardo De Filippo e al suo Vincenzo De Pretore, figlio di padre ignoto, che per campare rubava e che aveva scelto come suo protettore San Giuseppe. La penna del grande drammaturgo, letto da Servillo, ci conduce ancora una volta in Paradiso, dove Vincenzo arriva dopo essere stato ammazzato. Qui l’uomo chiede di essere accolto dal suo Santo Protettore e tale è la delusione quando San Giuseppe dice di non conoscerlo. La povertà e l’arte dell’arrangiarsi sono l’asse portante della poesia napoletana, in particolare di Eduardo.
Toni Servillo ci ha guidato tra i quartieri di Napoli con “A Madonna d’e’ mandarine” e “E’ sfogliatelle” di Ferdinando Russo, portandoci poi in una sorta di Purgatorio dove vivono coloro che son sospesi mediante ”Fravecature” di Raffaele Viviani, racconto di un operaio morto, “Litoranea” di Enzo Moscato e “‘O vecchio sott’o ponte” di Maurizio De Giovanni.
Le doti attoriali di Toni Servillo sono state messe in risalto soprattutto dai toni accesi di quello che egli stesso ha definito l’inferno senza fine, in particolare con la “A sciaveca” di Mimmo Borrelli, una serie d’imprecazioni che richiedono non solo fiato, e quindi un’ottima calibrazione diaframmatica, ma anche un’espressione mimica e corporea che possa ricalcare bene il linguaggio colorito e volgare usato a Napoli (e non solo) tra il popolo per scaricare la rabbia e la frustrazione.
L’attore de La Grande Bellezza ha poi recitato “Sogno Napoletano” di Giuseppe Montesano e “Napule” di Minno Borrelli, senza dimenticare “A’ livella” di Totò, per poi terminare con “Primitivamente” di Raffaella Viviani, “‘Nfunno” di Eduardo e “Cose sta lengua sperduta” di Michele Sovente.
«Io non faccio come tutti quegli attori che escono dal palcoscenico aspettando che il pubblico chieda il bis», ha detto Servillo alla platea del Carlo Gesualdo, visibilmente emozionata che si è lasciata andare in una lunga standing ovation, attestato di stima per un professionista che ha fatto della passione per il teatro il suo lavoro, con impegno e dedizione.
Maria Ianniciello