Race – Il colore della vittoria: recensione e trailer – L’essere umano abita nel tempo e nello spazio, dove manifesta il suo mondo interno attraverso il movimento. Il secolo più movimentato della Storia è stato certamente il 1900 che, con le sue contraddizioni, ha cambiato la geopolitica e l’idea che l’uomo ha di se stesso, aprendo le frontiere a nuovi punti di vista anche mediante la nascita della moderna Psicologia. La seconda guerra mondiale è definita di “movimento”, a differenza del primo conflitto, quando le Potenze tra il 1914 e il 1918 schierarono i loro armamenti in trincee, cioè in uno spazio ristretto e stabile. Il Futurismo è tuttora considerato la corrente più dinamica della storia dell’arte e il cinema stesso con le sue immagini in movimento ha raccontato storie, a volte inventate, molte altre basate su fatti realmente accaduti. Tutto questo si è verificato proprio nel secolo scorso come la vicenda che è al centro del film Race – Il colore della vittoria, diretto da Stephen Hopkins. Il protagonista si chiama Jesse Owens (Stephen James) ed è un personaggio realmente esistito che si muove in uno spazio e in un tempo in cui i pregiudizi e gli stereotipi sociali erano una costante nell’America della segregazione razziale.
Jesse fu un grande atleta che vinse 4 medaglie olimpiche nel 1936, nel cuore della Germania nazista proprio mentre dall’altra parte dell’Oceano gli uomini e le donne di colore erano privati della dignità di muoversi liberamente in ambienti condivisi, come si vede nel finale di Race – Il colore della vittoria. Il corpo di Jesse è fiero e disinvolto perché, mentre corre o salta l’ostacolo, egli trova la pace. In realtà nello sport, nell’atletica in particolare, non «esistono colori ma solo lenti e veloci». In quei pochi secondi la mente concede al fisico l’occasione di correre verso la libertà. La macchina da presa segue i movimenti di Jesse Owens che simboleggiano il desiderio di rivalsa di un intero popolo, il quale cercherà e poi troverà l’autorealizzazione grazie alle parole e soprattutto ai gesti di uomini come Martin Luther King. L’atleta, guidato da un allenatore dalle ampie vedute (Jason Sudeikis), riesce a compiere il miracolo, nonostante tutto sembri remare contro di lui.
Race – Il colore della vittoria non è però un film motivazionale (almeno non nel senso classico del termine), non ha l’intensità di Unbroken né la magia di La leggenda di Bagger Vance ma ha il merito di aver restituito all’umanità una vicenda per troppo tempo celata. Non è una pellicola che celebra gli Stati Uniti e, nonostante si potesse osare di più, il lungometraggio ci fa capire che nessuno è senza peccato e che, proprio in quel periodo, mentre gli ebrei venivano arrestati e rinchiusi nei campi di concentramento e di sterminio, gli afroamericani erano considerati cittadini di serie B tanto che, quando Jesse Owens ritornò in patria, il presidente Roosevelt si rifiutò di riceverlo per motivi elettorali. Alle Olimpiadi del 1936 il corridore diede il meglio di sé superando tutti i record e diventando una vera leggenda. Gli spunti sono tanti. Per esempio, la figura di una regista sui generis incarna in Race – Il colore della vittoria quel modello femminile che si è affermato nella seconda metà del secolo scorso, momento in cui il processo per l’emancipazione delle donne si espresse in tutta la sua forza. Il Cinematografo, al tempo strumento di propaganda, diventa qui viatico di un’informazione attendibile documentando ciò che realmente accadde. Da vedere! Di seguito il trailer.