Guardando il film Silence, mi viene in mente uno dei passi più belli del Siddharta di Herman Hesse. Il protagonista del noto romanzo è ormai invecchiato e, grazie al figlio, conosce quel sentimento, che erroneamente noi chiamiamo Amore, e che è al contrario volontà di possesso e imposizione. Vasudeva – il barcaiolo, per il quale Siddharta lavora, – gli dice a un certo punto delle cose molto interessanti: «Tu non lo picchi, non lo costringi, non gli dai ordini perché sai che c’è più forza nel molle che nel duro, sai che l’acqua è più forte della pietra, che l’amore è più forte della violenza. Molto bene, ti lodo. Ma non ti sbagli forse credendo di non costringerlo, di non castigarlo? (…) Non lo costringi forse a vivere, lui, un ragazzo orgoglioso e viziato, in una capanna con due vecchi mangia-banane per i quali il riso è già una leccornia, i cui pensieri non possono essere i suoi, il cui cuore è vecchio e calmo e ha un altro passo che è il suo? Tutto questo non è forse costrizione, castigo per lui? (…)». Il figlio di Siddharta troverà il modo per andare incontro al proprio destino.
Vi ho citato il libro di Hesse, perché Silence, film-capolavoro di Martin Scorsese, ci induce a riflettere sulla predisposizione degli esseri umani a imporre idee e stili di vita, per affermare un Credo. Il regista racconta una storia alternativa che riguarda le persecuzioni subite dai Cristiani in Giappone mediante la lente d’ingrandimento di due preti gesuiti (magistralmente interpretati da Andrew Garfield e Adam Driver) che, per seguire le tracce di Padre Ferreira (Liam Neeson), decidono di recarsi nel Paese del Sol Levante dove trovano le ultime comunità cristiane che subiscono atroci violenze. Le domande sul Cristianesimo, ma anche sulla Fede – che forse si trova più nel silenzio che nella parola pronunciata per convincere chi la pensa diversamente – sono alquanto insolite in una società che sembra aver dimenticato il Padre, mentre i culti Mariani si diffondono sempre di più. Viviamo, difatti, in un’epoca che ha effeminato il Padre redendo la Madre androgina.
Silence è un film, che rievoca, ma soltanto per alcune scelte stilistiche, pellicole come Il nome della rosa (1986) o anche Sette anni in Tibet (1997); per il contenuto al contrario il lungometraggio somiglia solo a se stesso. Scorsese con la macchina da presa si sposta nel 1600 dirigendo una pellicola ben costruita, sicuramente non priva di sbavature soprattutto nel ritmo che rallenta troppo verso il finale. Silence è dunque un’opera contemporanea, perché nell’epoca del terrorismo islamico film come questo sono necessari. Perché? Francesco De Sanctis, quando era in prigione, disse che avrebbero potuto martoriare il suo corpo ma non avrebbero potuto uccidere il suo intelletto e il suo spirito. Martin Scorsese fa leva proprio su questo concetto, perché possono costringerci ad abiurare la nostra Fede con le parole ma nessuno, se rimaniamo in silenzio, potrà mai entrare nei cunicoli del Cuore dove abita la nostra Verità. Di seguito il trailer di Silence, basato sul romanzo omonimo di Shūsaku Endō (edizioni Corbaccio).